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I Segni del Potere I SEGNI DEL POTERE Clementina Panella Sapienza - Università di Roma Il saggio sviluppa una serie di tematiche connesse al ritrovamento e al suo significato archeologico, antiquario, storico. Vengono analizzati in appositi paragrafi: il sito (gli annessi di un santuario di antichissima data del Palatino), i reperti (tre scettri, quattro punte di lancia da cerimonia e quattro punte di lancia attribuite a portastendardi), i materiali (pietre dure, vetro, cuoio, tessuti, legno, ferro, leghe del rame, oro), i dati stratigrafici provenienti dallo scavo e le circostanze dell’interramento (una rudimentale fossa in un vano seminterrato). Accertate la natura del contesto (un corredo imperiale seppellito in un momento di pericolo del “titolare” e non più recuperato) e la sua datazione (inizi del IV secolo), una particolare attenzione è stata dedicata alle iconografie in quanto riflesso del quadro ideologico a cui fa riferimento la rappresentazione del potere attraverso i suoi simboli, e alle istituzioni politiche, militari e religiose connesse alla dignitas del principe. Il ritrovamento risulta perciò inserito non solo all’interno di un sito e di una sequenza stratigrafica specifica, ma soprattutto all’interno di un processo storico e ideologico di lunga durata. La cronologia raggiunta attraverso l’incrocio tra dati di diversa natura (stratigrafici e archeometrici) ha consentito di presentare l’ipotesi che il titolare di questo insieme di “segni” fosse Massenzio (306-312 d.C.), ucciso da Costantino a Ponte Milvio. This essay takes into account a set of themes linked to the concept of “discovery” and to its archaeological, antiquarian and historic meaning. In different paragraphs we analyse the site (the annexes of a very ancient shrine on the Palatine), the findings (three sceptres, four ceremonial spear tips and four spear tips attributed to the banner bearers), the materials (semiprecious stones, glass, leather, cloth, wood, iron, copper alloys, gold), the stratigraphic data from the excavation and the circumstances of the burying (into a shallow pit in a basement room). After ascertaining the nature of the context (an imperial set buried during a dangerous moment for its owner, and never recovered) and its dating (beginning of the IV century) we have placed special attention to the iconographies as evidence of the ideological framework in which the power represents itself by means of its symbols, and to the political, military and religious institutions linked to the dignitas of the princeps. This discovery hence is set not only within a stratigraphic sequence, but also within the context of a long historic and ideological process. The chronology obtained by cross referencing data of different sources (stratigraphic and archeometric) led us to assume that the owner of this set of insignia was Maxentius (306-312 A.D.) killed by Constantine at Ponte Milvio. Le insegne imperiali sono state rinvenute nel 2005 nello scavo della pendice nord-orientale del Palatino diretto da chi scrive 1. Estensione del progetto che ha interessato tra il 1986 e il 2003 l’area della Meta Sudans (una fontana monumentale edificata da Augusto e ricostruita dagli imperatori flavi tra l’80 e 90 d.C.) 2, le indagini in corso (2001-2010) riguardano un settore del Parco Archeologico del Foro Romano e del Palatino che prospetta sulla Piazza del Colosseo tra l’attuale via Sacra e l’Arco di Tito, dato in concessione dal Ministero dei Beni e della Attività Culturali al Dipartimento di Scienze Storiche, Archeologiche, Antropologiche dell’Antichità della Sapienza - Università di Roma (figg. 1-2). Lo scavo ha restituito finora una successione di terre e strutture databili tra l’VIII secolo a.C. e l’età contemporanea ed ha già ap- portato numerosi nuovi dati relativi all’evoluzione storico-monumentale di una zona centrale della città antica finora trascurata dalla ricerca archeologica 3. L’edificio, da cui questo insieme di oggetti proviene, fa parte delle costruzioni che spettano alla Domus Aurea 4. Com’è ampiamente noto, l’incendio del 64 d.C. distrugge gran parte della città e, tra gli altri, i quartieri sorti nella valle che sarà dell’Anfiteatro e sulle pendici delle colline che prospettano su di essa. L’intervento neroniano posteriore alla catastrofe prevede in questo settore lo sgombero delle macerie, l’innalzamento dei piani d’uso mediante scarichi di detriti edilizi e la realizzazione di un progetto che modifica totalmente destinazioni e funzioni dell’intera area. Il vestibolo/atrio a nord, lo stagnum al centro della valle, i portici intorno ad esso sostituiscono le insulae giulio-claudie. Rettificata, allargata e porticata, la via diretta al Foro, risa- Questo testo integra e approfondisce i contributi sul contesto palatino pubblicati in ScAnt 13, 2006 (Panella - Ferrandes - Pardini - Ricci 2006, 701-718) e in Roma e i Barbari (Panella 2008). 1 Le attività sul campo sono state coordinate nel 2005 da Sabina Zeggio, coadiuvata da Viviana Carbonara, Antonio F. Ferrandes, Giacomo Pardini. La documentazione grafica è stata curata da Emanuele Brienza. Per la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (SSBAR) hanno seguito i lavori Irene Iacopi e Giovanna Tedone. I finanziamenti sono stati assicurati dalla Sapienza - Università di Roma, dal MIUR e dalla Fondazione BNC. 2 Sui risultati delle indagini in questa area vd. Panella 1996; Zeggio 2006 (con bibliografia completa); Panella 2006b. 3 Una lettura della storia di questo settore urbano sulla base delle indagini in corso sono in Panella - Zeggio 2004 e Panella et alii 2006. 4 Un quadro generale dei complessi monumentali che su questo sito gravitano e un’interpretazione complessiva delle evidenze nella lunga durata sono in Panella 2006a. Sequenza stratigrafica e contesti associati al ritrovamento delle insegne sono trattati da Panella - Ferrandes - Pardini - Ricci 2006, 722-728 e più nel dettaglio in questo volume da Antonio F. Ferrandes e Lucia Saguì (125-168). Il sito 25 1. - Valle del Colosseo e pendici nord-orientali del Palatino. Planimetria generale delle strutture rinvenute nello scavo (campagna 2010), sovrapposta alla foto area dell’area (Elab. E. Brienza). 2. - Valle del Colosseo e pendici nord-orientali del Palatino. Planimetria generale delle strutture rinvenute nei due cantieri di scavo (area della Meta Sudans e Palatino NE). Il pallino rosso indica il luogo del ritrovamento delle insegne imperiali (Elab. E. Brienza). 26 I Segni del Potere lente all’età regia, collega i diversi comparti della reggia: il lago, l’atrio veliense dominato dal Colosso, il nucleo palatino. A Sud di questa strada, saldato al muro di fondo del portico, è realizzato un basamento costituito da una maglia regolare di vani e corridoi coperti a volta, semi incassati nella collina (è in uno di questi ambienti che saranno interrate secoli dopo le insegne). Basamento e soprastante platea regolarizzano il terreno in forte pendenza da Ovest verso Est e risolvono il primo salto di quota tra valle e Palatino. Ai piedi della terrazza, nella valle, compaiono strutture che delimitano spazi regolari di grandi dimensioni (coperti, scoperti?) difficilmente interpretabili perché conservati solo in fondazione 5. È altrettanto noto che la dinastia Flavia interviene pesantemente su questa parte della città, ma mentre nella valle i corpi di fabbrica neroniani vengono abbattuti e sostituiti dall’Anfiteatro e dai suoi servizi, un “recupero” del tessuto precedente è l’operazione attuata sul Palatino nord-orientale, che procede parallelamente ai rifacimenti di ordine strutturale dei portici della via valle-Foro, della Sacra via, del “clivo Palatino”. Se la terrazza con i suoi vani sostruttivi non risulta sostanzialmente toccata (se mai completata), davanti ad essa, ove le fondazioni neroniane delimitavano un ampio spazio rettangolare probabilmente mai allestito, è costruito un edificio su podio, con orientamento E-W, con una base appoggiata alla parete di fondo, rivestito di marmo all’esterno e pavimentato in opus sectile all’interno, che si configura come un piccolo tempio con fronte rivolta verso la Meta Sudans, riedificata sui resti della fontana augustea 6. Due corridoi mettono in comunicazione l’area su cui la nuova struttura si affaccia con i vani semipogei che sostengono la platea 7. Terrazza e sacello fanno perciò parte di un unico complesso, separato dalla piazza da un muro obliquo 8 di modesto spessore (vero e proprio muro di recinzione), realizzato anch’esso in età flavia, che rompe l’ortogonalità e gli orientamenti del sistema urbanistico neroniano 9. A Nord corrono i portici (neroniani, ma ora ristrutturati) della strada che rimonta il colle, mentre ad Ovest un diverticolo, in quota con la terrazza, viene realizzato in direzione delle sostruzioni della Vigna Barberini, anch’esse in costruzione 10. Muro obliquo e via porticata delimitano a partire da questo momento l’angolo nord-orientale del Palatino, che risulta, rispetto all’assetto topografico precedente l’incendio, più avanzato verso Nord e più arretrato verso il monte (cioè verso Ovest: Panella 2009, 292, figg. 4-5). Sulla terrazza le spoliazioni post-antiche non hanno lasciato traccia di strutture, a meno che non vadano attribuiti all’intervento flavio, se non già a quello neroniano, i vani che si dispongono a pettine sul margine occidentale della stessa, configurando a quota alta un sistema di ambienti aperti su un cortile 11. Il complesso costituito dal tempio/terrazza potrebbe rappresentare la ricostruzione del santuario delle pendici palatine da noi ritrovato e parzialmente scavato tra l’Arco di Costantino e il Palatino, risalente almeno alla fine del VII secolo a.C., ristrutturato in età claudia e distrutto insieme a tutti gli edifici della valle nell’incendio del 64 d.C. L’antico luogo di culto è stato in via di ipotesi identificato con le Curiae veteres, attribuite a Romolo dalle fonti scritte (Fest. 180, Linds.), menzionate da Tacito come terzo vertice del limite sacro (pomerium) della città palatina (Tac., Ann. 12, 24) e ricordate ancora nel IV secolo dai Cataloghi Regionari nella X Regio (Palatium) 12. In Curiis veteribus nasce Augusto (Serv., Aen. 8, 361); la casa natale viene trasformata in sacrarium da Livia (Suet., Aug. 5) (anche questa domus potrebbe essere stata raggiunta dal nostro scavo, immediatamente a monte del basamento neroniano 13); per Svetonio (Tib. 51) il sacrario, ove Livia conservava le lettere del principe, esisteva ancora ai suoi tempi (è il nostro piccolo tempio?). Sui complessi e sui monumenti realizzati in questa zona a partire dall’età neroniana vd. Ferrandes 2006a e il suo contributo in questo volume (131-134) 6 Una riflessione sul significato simbolico fortemente ideologico degli interventi flavi in questo comparto urbano è in Panella 2009. 7 Il basamento riceve restauri strutturali (infra, Ferrandes, 134137) e decorativi che sembrano suggerire una destinazione d’uso, in questa fase, di una certa qualità. 8 Questa struttura, anch’essa di età flavia, si salda a Nord alla parete di fondo del portico meridionale della strada che sale al Palatino e a Sud ad un muro neroniano che corre in direzione del Circo Massimo (infra, Ferrandes, fig. 5). 9 Le nuove realizzazioni flavie manterranno gli orientamenti dei corpi di fabbrica della Domus Aurea nella valle: l’Anfiteatro ad esempio è disposto sul medesimo asse del vestibolo-atrio. 10 Villedieu 2007, 98-143. 11 Questa è la configurazione della terrazza in età severiana, ma un’area scoperta delimitata da una fila di ambienti, almeno lungo limite Ovest, potrebbe essere immaginata sulla platea anche per le fasi precedenti: Panella 2006a, 267-268; Ead. 2009. 12 Valentini - Zucchetti, I, 131 (Curiosum), 178 (Notitia). Sull’ipotesi di una collocazione delle Curiae veteres e quindi del terzo vertice del pomerio di Romolo sull’angolo nordorientale del Palatino vd. Panella 1996, 70 ss. (fonti e problemi) e più recentemente Panella - Zeggio 2004; Panella 2006a, 271-275. 13 Carbonara 2006; Panella 2006a, 278 ss. 5 27 Clementina Panella I massicci interventi che interessano nella media età imperiale le aree vicine (la realizzazione del Tempio di Venere e Roma in età adrianea che sostituisce il vestibolo/atrio della Domus Aurea sulla Velia e la costruzione del Tempio di Elagabalo sulla terrazza della Vigna Barberini in età severiana) non modificano in modo sostanziale questo isolato che resta pressoché identico a se stesso fino ad epoca assai tarda. Tuttavia va segnalato che in età severiana la via diretta dalla valle dell’Anfiteatro al Foro perde probabilmente il suo porticato meridionale (il portico settentrionale era forse già scomparso in età adrianea con la costruzione del Tempio di Venere e Roma), la cella del sacello è ripavimentata a mosaico, mentre sul lato occidentale della terrazza sono edificati (o meglio riedificati) alcuni ambienti, i cui tramezzi in laterizio con orientamento E-W, posti in corrispondenza dei setti murari che delimitavano i vani sottostanti, poggiano direttamente sulla massicciata in cementizio che copre le volte di questi ultimi. Questa è l’organizzazione degli spazi nel momento in cui le insegne vengono interrate in una fossa praticata nel pavimento di uno dei vani semipogei. I dati disponibili sembrano indicare che l’area conservi questa configurazione sino alla metà/seconda metà del V secolo, quando crollano alcune volte del basamento e con esse le strutture soprastanti. Le successive vicende edilizie (dal VI secolo in poi) si riferiscono ad altro monumento e ad altra destinazione d’uso. Se in questo insieme di costruzioni va vista la riproposizione dell’antico santuario di pendice, la sua lunghissima vita spinge a ricercare le ragioni di una così lunga sopravvivenza in un culto collegato a memorie che andavano preservate e salvaguardate. I dati che abbiamo raccolto in questi anni ci hanno portato ad associare tali memorie con il fondatore della città (Curiae veteres, pomerio) e con il fondatore dell’impero (casa natale, sacrario e Meta Sudans) 14. In quest’ambito entra in gioco anche il ritrovamento delle insegne imperiali negli annessi di quest’area cultuale, che fronteggia sul lato op- posto dell’attuale via Sacra il tempio adrianeo/massenziano di Venere e Roma, soprattutto se esse appartengono ad un personaggio (Massenzio) che aveva attuato proprio tra la Velia e la valle del Colosseo l’ultima grande rivoluzione del centro urbano. 14 Sul complesso di evidenze che ci ha portato alla ricostruzione della storia di questa pendice palatina e dell’intero settore urbano che gravitava su di essa, vd. Zeggio 2006; Panella 2006a e 2006b. 15 Le insegne sono state esposte per la prima volta a Roma in occasione della Mostra “I Segni del Potere” inaugurata nel Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo a Roma il 23 febbraio del 2007, curata da chi scrive e da Rita Paris della SSBAR, con fondi messi a disposizione dalla Soprintendenza stessa, dalla Fondazione BNC, Electa, Mezzaroma Costruzioni e da Stefanina Aldobrandini. Sono state poi portate a Venezia (Palazzo Grassi) nell’ambito della Mostra “Roma e i Barbari. La nascita di un nuovo mondo” (26/01-20/07/2008). Attualmente fanno parte delle Collezioni del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. 16 Un primo intervento di pulitura e consolidamento è stato effettuato nel Laboratorio di Archeologia della Sapienza da Esmeralda Senatore dell’Istituto Superiore della Conservazione e del Restauro (ISCR) (vd. in questo volume, 201-202). Rientrati da Venezia, gli oggetti sono stati sottoposti ad un secondo intervento di consolidamento e di restauro eseguito dallo Società RE.CO sotto la direzione di Cinzia Conti della SSBAR (vd. 203-214). 28 I reperti 15 Il contesto in esame proviene, come si è detto, da una rudimentale, piccola fossa praticata nella pavimentazione di uno dei vani appartenenti alla maglia di strutture che sostengono la terrazza neroniano/flavia, ancora in uso in età tardoantica. La fossa conteneva, insieme a pochissima terra, undici reperti16, che verranno qui solo brevemente presentati, essendo descritti in dettaglio nel Catalogo (177-190). – Un corto scettro in ferro e in oricalco (una lega di rame e zinco simile al moderno ottone con esito sui manufatti di un colore dorato, vd. infra) coronato da una sfera in vetro di colore verde smeraldo sostenuta da un calice di otto petali in ferro; sul legno dell’impugnatura, probabilmente intarsiato, immediatamente al di sotto del disco che regge il calice, si conservano tracce di foglia d’oro (fig. 3a; Cat. nr. 1). La eccezionalità di questo pezzo, ritrovato praticamente integro, consiste nella combinazione dei materiali con cui è stato realizzato, scelti con la finalità di creare un gioco di colori oggi non più apprezzabile: dal grigio del ferro dei petali del calice, al rosso del cerchio di rame che fermava alla base la corolla, al giallo chiaro dell’oricalco della base a campana e del disco che reggeva il calice, al giallo dell’oro che rivestiva il legno intarsiato dell’impugnatura, al verde intenso della sfera che lo coronava. – Una sfera in calcedonio di colore azzurro chiaro, con foro passante per un elemento perduto, appartenente ad uno scettro presumibilmente di forma conica (fig. 3b; Cat. nr. 2). Il foro passante serviva a collegare la sfera al supporto e al coronamento. L’assenza di tracce di ossidazione di metallo al suo interno indicano che l’oggetto che vi era c b a 3a-b-c. - Gli scettri: a. piccolo scettro con sfera verde (Cat. nr. 1) rinvenuto praticamente integro (Foto M. Necci); b. scettro con sfera in calcedonio (Cat. nr. 2) (Foto L. Mandato e G. Cargnel, negativo SSBAR nr. 551157); c. scettro a due sfere (Cat. nrr. 3-4) (Foto L. Mandato e G. Cargnel, negativo SSBAR nr. 551159). Gli scettri sono qui riprodotti così come sono esposti nel Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo a Roma. inserito doveva essere in oro o in pietra preziosa o, come suggerisce Marco Ricci, in legno dorato o dipinto. Una terminazione a forma di aquila è al momento ipotesi pre- feribile ad altri tipi di figurazione (Vittoria, busti di divinità o di imperatori, croce). In particolare la Vittoria ad ali spiegate con o senza corona e ramo di palma è documentata sul globo quando esso è un attributo in sé, tenuto nella mano di Roma o dell’imperatore 17. Nel nostro caso la sfera di calcedonio sembra troppo piccola per avere questa funzione (diam. cm 8). È da escludere anche la presenza di un’effigie imperiale, dal momento che l’insieme recuperato appartiene, come vedremo, proprio ad un imperatore. La cronologia del contesto (non oltre gli inizi del IV secolo) impedisce poi di pensare che sulla sommità vi fosse il simbolo cristiano della croce 18. – Due sfere in vetro dorato, pertinenti a un terzo scettro. Abbiamo immaginato che esse costituissero le due estremità di un’asta presumibilmente in legno (intarsiato, dorato, dipinto?) (fig. 3c; Cat. nrr. 3-4). – Due punte di lancia in ferro e oricalco con cannule che si aprono in un fiore a sei petali, sui quali si innesta una cuspide a sei lame (fig. 4a-b; Cat. nrr. 5-6), identificabili con hastae/scettro. Anche in questo caso l’effetto di policromia è ottenuto mediante l’impiego di materiali diversi: una delle punte ha la cannula in oricalco e le lame alternate in ferro ed oricalco; un’altra ha la cannula a segmenti alternati in ferro e in oricalco e le lame tutte in ferro. Che si tratti di lance cerimoniali è dimostrato dalla mancanza dei fori per il fissaggio delle aste, che dovevano essere montate solo in occasione del loro impiego. Anche la scarsa durezza della lega in ferro indica che questi oggetti, come la lancia di seguito menzionata, non hanno mai funzionato come vere e proprie armi. – Una punta di lancia a lama semplice in ferro con base sagomata a forma di pelta; anche in questo caso mancano i fori per bloccare l’asta (fig. 4c; Cat. nr. 8). 17 Un esemplare costituito da una sfera in berillio di dimensioni analoghe al nostro calcedonio (diam. cm 7,5/8) coronato da Vittoria in bronzo (IV secolo?), proveniente dalla Collezione del Principe A. Juritzky (Schramm 1958, tav. 7, 16aa), è finito all’asta a New York nel 2000. Quast 2010, 288, fig. 5 suppone che si tratti del terminale di uno scettro. Sul globo niceforo, raffigurato su monumenti e monete come simbolo del potere assoluto dell’Urbs o del principe, vd. Bastien 1992-1994, 511-526. 18 Sul globo crucigero, vd. Bastien 1992-1994, 430, fig. 6 e infra. a b c 4a-b-c. - Le hastae da cerimonia: a. punta di lancia con lame in ferro ed oricalco e cannula in oricalco (Cat. nr. 6); b. punta di lancia a sei lame in ferro e cannula in oricalco e ferro (Cat. nr. 5) (Foto M. Fano); c. punta di lancia in ferro con base sagomata “a pelta”(Cat. nr. 7) (Foto L. Mandato e G. Cargnel, negativo SSBAR nr. 551188). 29 Clementina Panella b b a a 5a-b. - Le hastae ad alette in ferro (Cat. nrr. 9-10) (Foto L. Mandato e G. Cargnel, negativo SSBAR nr. 551185). 6a-b. - Le hastae ad alette con punta in ferro e cannula in oricalco (Cat. nrr. 11-12) (Foto L. Mandato-G. Cargnel; negativo SSBAR nr. 551171). – Quattro punte di lancia attribuite ad aste portastendardo, due in ferro (fig. 5a-b; Cat. nrr. 9-10) e due in ferro e in oricalco (fig. 6a-b; Cat. nrr. 11-12). Dei drappi quadrangolari o triangolari (a fiamma) in seta, in lino 19, certamente colorati (tinti in porpora?) 20 e forse intessuti d’oro 21, che immaginiamo fissati tramite una traversina alle alette delle cannule (vd. la ricostruzione a fig. 7), restano solo le tracce rinvenute sulle lance stesse e sullo scettro con sfera verde. Anche gli stendardi sarebbero stati perciò riposti nella fossa ed utilizzati per avvolgere lance e scettri. A questi esemplari va aggiunto un dodicesimo oggetto rinvenuto nel 2004 (cioè precedentemente al ri- trovamento che stiamo analizzando) nel riempimento di un cunicolo di età rinascimentale che attraversava da Nord a Sud questa porzione dello scavo (vd. infra, 156-157). Si tratta di una punta di lancia a sei lame, di cui si conserva solo parte della cuspide in ferro (Cat. nr. 7), dello stesso tipo dell’esemplare con le sei lame tutte in ferro e cannula a fasce alternate di ferro ed oricalco (vd. fig. 4b; Cat. nr. 5). È stata riconosciuta come pertinente all’insieme delle insegne solo nel 2007, in seguito ad un controllo di tutti i materiali provenienti dall’area. Per spiegare la sua posizione “anomala” nella stratigrafia va detto che il cunicolo non ha intaccato il I reperti tessili sono stati analizzati e identificati da Lucia Portoghesi. Le foto e il trattamento chimico sono stati realizzati nei laboratori di Chimica e di Elettronica dell’Istituto Professionale “Sebastiano Bartoli” di Montella (AV), coinvolgendo gli studenti dell’Istituto, coordinati da Patrizia Bocchino e Vincenzo Favale. Il testo non ci è pervenuto, ma alcune immagini che la Portoghesi ha fornito per i pannelli della Mostra “I Segni del Potere” già citata sono qui riprodotte a figg. 12-13. Lo studio è stato ripreso da Maria Rita Giuliani dell’ISCR (vd. 235-241). Pigmenti di lacche rosse utilizzate per la tintura dei tessuti sono stati restituiti dalle foto all’infrarosso (I.R.) e all’ultravioletto (U.V.) effettuate da Giuseppe e Maurizio Fabretti (vd. in questo volume, 221-224). Forse pigmento rosso anche su un campione isolato di tessuto in seta (vd. fig. 13) 21 Un frammento di tessuto, conservatosi sulla base “a campana” del piccolo scettro con sfera verde, presenta una piccola traccia d’oro che potrebbe appartenere alla stoffa che lo avvolgeva (vd. infra, Ferrandes - Pardini, fig. 5c). 19 30 20 I Segni del Potere 7. - Proposta ricostruttiva del corredo imperiale (Elab. e dis. Marco Ricci). deposito, ma ha a sua volta intercettato una fossa di spoliazione di età tardo-medievale, che invece lo ha raggiunto in corrispondenza del pilastro 5509, che era l’oggetto della ruberia. Tra le terre di questa prima spoliazione deve essere finita la punta di lancia, che in terza giacitura, è “riemersa” nel riempimento del cuni- colo rinascimentale. Poiché le altre punte di lancia rinvenute sono intatte, è possibile supporre che gli “spoliatori” abbiano recuperato la cannula della lancia, che doveva essere, come negli altri due casi, in metallo pregiato ed abbiano gettato via la parte in ferro. Questa circostanza potrebbe suggerire che il materiale da noi 31 Clementina Panella raccolto non sia completo e che qualcosa sia stata sottratta dalle spoliazioni post-antiche. Va tuttavia anche segnalato che ciò che può essere stato asportato in età medievale è certamente una porzione assai modesta del contesto originario, dal momento che la fossa che lo conteneva non poteva oltrepassare il pilastro a cui si appoggiava. Materiali e tecniche 22 I metalli tratta di suppellettili e vasi, ma soprattutto di armi e manufatti usati dall’esercito (fibulae, elmi, finimenti di cavalli, cinturoni, loricae, intarsi) 26. Gli oggetti in oricalco si presentano di colore giallo, simili all’oro, ma di tonalità più tenue. Il valore della lega era inferiore a quello del metallo più nobile (Cic., De off. 3, 23, 92), ma ancora superiore (in età dioclezianea) di 6/8 volte a quello del rame. Tra i compensi previsti nell’Editto dei Prezzi di Diocleziano del 301 d.C. (7, 26) compare anche quello dei fonditori di oricalco. Il legno Due delle punte di lance da cerimonia, due delle quattro punte di lancia portastendardo e il corto scettro con sfera in vetro presentano sia parti in ferro (lame delle lance, impugnatura e calice dello scettro), sia parti (cannule delle lance, base a campana e disco dello scettro) realizzate in una lega di rame e zinco con un tenore di zinco tra il 10 e il 25-30%, chiamata in antico orichalcum 23. La sua origine è certamente orientale con esempi molto antichi (anello di Ugarit del XIII secolo a.C.) e con casi (fibulae di Gordion del VII a.C.) in cui la presenza dello zinco mescolato al rame non sembra involontaria 24. È opinione comune che la diffusione in Occidente da una parte e una produzione intenzionale su larga scala dall’altra appartengano solo all’età romana, quando tale lega venne utilizzata principalmente per la monetazione, a cominciare da alcune emissioni di Frigia e di Bitinia del I secolo a.C. fino ai sesterzi e dupondii di Augusto nella riforma del 23 a.C., preceduti dalle serie emesse in Asia nel 29 a.C. 25. Accanto alle monete oggetti in questo materiale sono documentati (e prodotti) un po’ ovunque. Si Tutte le lame erano quasi certamente custodite in astucci di pioppo 27. Dal punto di vista tecnologico questo legno è tenero, leggero e flessibile e presenta quindi facilità di intaglio e di fissaggio. Il legno è presente solo sulle cuspidi e serviva evidentemente a proteggerle dal deterioramento. I frammenti di cuoio, ritrovati anch’essi nella fossa, fanno supporre che gli astucci fossero a loro volta rivestiti in questo materiale 28 (fig. 8). In legno dovevano essere anche le aste degli scettri, che, smontate e forse anch’esse interrate, non si sono conservate. Il legno era presente infatti quasi unicamente a contatto con il metallo, che è intervenuto con le sue componenti a modificare la struttura degli elementi organici nel corso del loro disfacimento, alterandoli chimicamente, cioè mineralizzandoli. Ove non vi era metallo, il materiale organico (ciò vale anche per i tessuti) si è dissolto. Si segnala inoltre la presenza di due minuscoli tasselli in legno di quercia, riferibili ad un intarsio sull’impugnatura del piccolo scettro con sfera in vetro verde 29. Infra, Ricci, 192-193, figg. 1-2. Mario Piacentini con i suoi collaboratori ha condotto le indagini metallografiche che hanno permesso di individuare i rapporti percentuali di rame e zinco nelle lance del nostro contesto e di identificare la natura della lega (vd. in questo volume, 227 ss.). Sull’oricalco, ottenuto nell’antichità mediante l’impiego di una tecnologia complessa, vd. Halleux 1973; Giardino 1998, 188-191, con bibliografia; Healy 1993, 64-65 per la localizzazione in Grecia, a Cipro, in Italia, in Gallia e soprattutto ad Aachen e lungo le rive della Mosella in Germania dei giacimenti di calamina, chiamata cadmea in latino, un minerale di zinco che mescolato al rame dava luogo a questo tipo di lega (Fest. 41, Linds.: cadmea: terra quae in aes coicitur ut fiat orichalcum); 242-243 per le tecniche utilizzate per la sua realizzazione (su di esse vd. anche la bibliografia riportata nelle note seguenti). 24 Craddock 1978, da aggiornare con la bibliografia di Bayley 1990, 8-9. 25 Caley1964; Burnett et alii 1982, 263-268. 26 La bibliografia è vasta e in continuo aggiornamento: per gli elmi da Worthing e da Buch del III secolo e per un cinturone da Londra del IV secolo vd. Bishop - Coulston, 1993, 191 e passim; per le fibulae dalla Britannia vd. Bayley 1990; per fibbie, loricae e altri oggetti da Masada e Gamla in Palestina vd. Ponting 2002, 555-571; per i ritrovamenti in Slovenia vd. Giumlia-Mair 2001; sulle officine (Xanten e Neuss) della Germania Inferior collegate ai giacimenti di Aachen vd. Rehren 1999; sulle manifatture della Britannia, Bayley 1990; su quella di Autun (Augustodunum) in Gallia, Picon 2004. Sull’uso dell’oricalco nel Medioevo e nell’età moderna si rimanda a Day 1990. 27 Analisi e studio del legno nel contributo di Alessandra Celant (in questo volume, 231-232, fig. 1). 28 Un frammento di cuoio che conserva al suo interno legno, spettante forse all’estremità di una punta di lancia, è presentato a fig. 2 dell’articolo già citato di Alessandra Celant. Le analisi sul cuoio sono state condotte da Stelluccia Nunziante Cesaro del CNR (vd. 243-244). Su questo materiale, sul suo uso e sui procedimenti tecnici di concia delle pelli e tintura nell’antichità si rimanda a Leguilloux 2004. 29 Infra, Ferrandes - Pardini, fig. 4b e Celant, 232, fig. 3. 22 23 32 8. - Frammenti di cuoio rinvenuti in prossimità delle punte di lancia. Su alcuni di essi piccoli fori di cucitura allineati. Fuori scala (Foto M. Necci). 9. - Resti di tessuto sulla cannula in oricalco della lancia Cat. nr. 6 (Foto M. Necci). 10. - Campione di tessuto in più strati sovrapposti inglobato nel calcare (Foto M. Necci). 11. - Macrofotografia di un frammento calcarizzato con più strati di tessuto (lo stesso in questo volume di Celant, figg. 4-6) (Foto A. Celant). I tessuti Anche i tessuti, colorati 30 e forse ricamati in oro 31 (vd. nn. 20-21), attribuiti agli stendardi, hanno lasciato quasi unicamente le impronte sulle parti in metallo non rivestite di legno (fig. 9) e sulle concrezioni calcaree formatesi o venute a contatto con gli oggetti medesimi (figg. 10-11). Sono stati individuati un tessuto in seta cruda, identificata dai due filamenti di fibroina tenuti insieme dalla se- 30 Ignoriamo la natura delle lacche rosse rivelate dalle fotografie all’infrarosso e all’ultravioletto (infra, G. e M. Fabretti, 222224). Di color ruggine è uno dei pochi frammenti che è stato possibile isolare (vd. fig. 13). Non è accertabile se il colorante fosse porpora. Su questa sostanza vd. in generale K. Schneider, in RE XXIII, 2, cc. 2000-2020, v. Purpura; sulla fabbricazione della porpora e sulla tintura dei tessuti si rimanda ai contributi raccolti ora in Purpureae Vestes I e II. Va segnalato che anche in Italia, oltre che in Oriente e altrove, vi erano officine per la tintura delle stoffe (di alta antichità quelle di Taranto e Siracusa: fonti archeologiche, letterarie ed epigrafiche in Macheboeuf 2004). Sui purpurarii urbani che operavano nella produzione e commercio dei coloranti, nella tintura e nella vendita delle stoffe considerate merci di lusso, vd. Gregori 1994. La scomparsa nel corso del I secolo a Roma di menzioni epigrafiche relative a purpurarii potrebbe essere collegata al passaggio dell’industria della porpora sotto il controllo imperiale (ibid., 742, n. 13, forse già in età neroniana; una seconda legge di monopolio sarà emanata nell’ultimo quarto del IV secolo da Graziano, Valentiano II e Teodosio I: Napoli 2004), ma per tutto il III secolo è attestata un’importante attività privata. L’Editto dei Prezzi dedica i capitoli 24 e 27 al suo commercio e a quello dei tessuti così colorati, mentre l’Expositio totius mundi §31 e 47 decanta le qualità della porpora di Palestina e d’Asia. Alla fine del IV secolo la legge riserverà all’imperatore non soltanto alcuni tipi di abito, ma anche le varietà più pregiate di porpora (Delmaire 1989, 455-464, qui anche per le officine di tintura di stato esistenti già nel III secolo: per es. quelle di Tiro, da cui proveniva quella più celebre e più cara: l’oxyblatta, o quelle egiziane). Per la porpora in quanto simbolo del potere regale vd. n. 295. Il coccum, utilizzato anch’esso nella tintura dei tessuti, dava un colore scarlatto, ma meno brillante della porpora, comunque sempre pregiato (fonti in E. Saglio, in Dict. Ant. I.2, 1265, v. coccum). 31 Filati ed ornamenti in oro su tessuti rinvenuti in Italia sono ora oggetto di un progetto di ricerca che vede coinvolti la SSBAR, l’ISCR e il CNR: Bedini - Rapinesi - Ferro 2004. Analisi delle fonti letterarie e delle iscrizioni sugli attalica (indumenti intessuti d’oro) e sulle auratae vestes in Chioffi 2004; su tali tessuti vd. ora Gleba 2008. 33 Clementina Panella 12. - Campione di tessuto avvolto dal calcare prima, durante e dopo il trattamento con acido acetico diluito e fibra in seta isolata (trattamento e foto L. Portoghesi, P. Bocchino, V. Favale; da “I Segni del Potere”, brochure e pannello della Mostra). a 13a-b. - Campione di tessuto in seta isolato e ingrandito al microscopio (Foto L. Portoghesi; da “I Segni del Potere”, brochure e pannello della Mostra). ricina (fig. 12) 32, e un tessuto in lino 33. Della seta è stato possibile isolare anche un campione forse con tracce di pigmentazione (fig. 13b). I resti di materiale tessile sono riconoscibili su quasi tutti i reperti e sono così abbondanti da far presumere che tutto l’insieme ne fosse avvolto. È il piccolo scettro con sfera verde quello che ha restituito più strati (di seta) soprattutto intorno ai petali 34, ma parecchie pieghe sono riconoscibili anche sugli altri oggetti 35 e sui frammenti calcarizzati (fig. 14). Sulla natura della seta bianca, ricavata in Cina dai bozzoli del baco del gelso, i Romani ebbero nozioni molto imprecise 36 fino a tempi assai tardi 37. Benché uso ed impiego della seta sembrino risalire già alla metà/seconda metà del I secolo a.C. 38, è in età tardo-augustea e Devo a Lucia Portoghesi e al suo gruppo di lavoro l’identificazione della seta, l’isolamento della fibra e le immagini a figg. 12-13. 33 Infra, Celant, 233, fig. 5. Sul lino (linum usitatissimum L.) e sul suo impiego nell’antichità vd. Marquardt 1892-1893, 111-119; Vicari 2001, 4. Benché analisi sistematiche su tessuti e sullo sfruttamento a fini produttivi di fibre tessili sui territori siano ancora agli inizi in Italia, una produzione in età imperiale di lino in Lombardia e pianura padana e nel Lazio/Campania, apparentemente non abbondante, ma di ottima qualità, è attestata dalle fonti letterarie (soprattutto Plin., NH 19, 9, e 19, 13), dai ritrovamenti (capsule di lino e tessuti a Pompei in Borgongino 2006, 53-54, 106, Cat. nrr. 277-279), dalle analisi paleobotaniche (Gleba 2004). Impronte di lino anche su monete dalla necropoli di via Basiliano a Roma: Colacicchi et alii 2006 (ricerche sul recupero e la caratterizzazione di tessuti su monete avviate dal Settore Metalli del Laboratorio di Restauro della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma in collaborazione con il Laboratorio di Biologia dell’ISCR). L’Egitto era certamente il maggiore produttore di questa fibra per tessuti (Plin., NH 19, 13): vd. Vicari 2001, 13, ma il lino era prodotto un po’ ovunque (Gallia, Spagna, Colchide, Gre- cia, Asia Minore). Nell’Editto dei Prezzi del 301 d.C. sono i tessuti in lino del Vicino Oriente ad essere i più citati. 34 Infra, Ferrandes - Pardini, fig. 3b; Giuliani, 239, fig. 15. 35 Infra, Giuliani, 236, fig. 3, passim. 36 Valgano come esempi Verg., Georg. 2, 121: Quid nemora Aethiopum molli canentia lana, velleraque ut foliis depectant tenuia Seres?, e Plin, NH 6, 20, 54: Primi sunt hominum qui noscantur Seres, lanicio silvarum nobiles, perfusam aqua depectentes frondium canitiem, unde geminus feminis nostris labor redordiendi fila rursusque texendi: tam multiplici opere, tam longinquo orbe petitur ut in publico matrona traluceat. 37 Pausania (6, 26, 6 ss.) è il primo ad attribuire l’origine della seta al bozzolo di un bruco piuttosto che ad una pianta. 38 Ne sono testimonianza le menzioni di Virgilio, Properzio, Orazio, Ovidio (vd. Ferguson 1978, 592-593, nn. 36-37). In seta erano i vessilli spiegati dall’esercito dei Parti nella battaglia di Carrae del 53 a.C. a detta di Floro (Epit. 1, 46, 8: Itaque vixdum venerat Carrhas, cum undique praefecti regis Silaces et Surenas ostendere signa auro sericisque vexillis vibrantia): primo approccio dei Romani con questo tipo di tessuto e con questo tipo di insegne o iperbole di una fonte già abituata (nella prima metà del II secolo) all’impiego di questo materiale negli stendardi militari? b 32 34 I Segni del Potere poi nel corso del I e del II secolo che i progressi del commercio consentirono all’Occidente di familiarizzarsi con questa merce importata a caro prezzo dall’Oriente asiatico 39 sotto forma di vesti (sericae vestes o holosericae vestes), di fili (sericum nema) o di seta greggia (metaxa); Berytus, Tiro, Babilonia, Alessandria furono per secoli i centri principali delle manifatture (Procop., HA 25). Divenuta rapidamente il simbolo del lusso orientale, la sua fortuna fu tale da determinare la ricorrente emissione di norme che proibivano agli uomini e talvolta anche alle donne l’uso di vestes sericae (Tac., Ann. 2, 33 per un senatoconsulto del 16 d.C.) 40, volte a frenare l’esportazione di metallo monetato 41. Plinio nel passo già citato (vd. n. 36) informa che le stoffe potevano essere disfatte e i fili reimpiegati, ritessendoli con lino, cotone, lana (seta mista: subserica o tramaserica) 42. Nel III secolo una libra di seta valeva quanto una libra d’oro (SHA, Aurel. 45, 5). Elagabalo è il primo – dopo Caligola (Suet., Calig. 52, 2; Dio, 59, 17, 3) – ad indossare un intero abito di seta pura a detta delle fonti (SHA, Eliog. 26, 1: Primus Romanorum holoserica veste usus fertur, cum iam subserica in usu essent). La notizia, vera o falsa che sia, dimostra che la seta era nella mentalità antica un esempio di lusso estremo e come tale, nelle fonti, appannaggio dei “cattivi” imperatori 43 o di individui corrotti 44. Agli inizi del IV secolo nell’Editto dei Prezzi di Diocleziano una libra di questo tessuto tinto di porpora (μεταξαβλάττης) costava dodici volte più (150.000 denarii) di una libra di seta bianca cinese (σηρικοῦ λευκοῦ) (12.000 denarii) e tre volte di più di una libra di lana tinta in porpora della qualità più pregiata 45. Il valore venale spiega perché tessuti e vesti in seta compaiano tra i donativi imperiali a legati, ufficiali, funzionari, dignitari e alleati già nel III secolo (SHA, Claud. 17, 6; Aurel. 46, 6, Prob. 4, 5). Tale pratica perdura nel corso di tutta la tarda antichità, anche a causa del ruolo emblematico che le vesti in seta assumono in quanto simbolo di status e più in particolare in quanto riflesso dell’abbigliamento imperiale 46. La storia successiva vede a partire dagli ultimi decenni del IV secolo (con i Valentiniani e con Teodosio I) un progressivo controllo imperiale sull’acquisto, sulla vendita, sulla tintura in porpora della seta, finché alla metà del VI secolo è solo lo Su questo fronte nulla è cambiato: foderati in seta, dipinti e ricamati sono ancora oggi i gagliardetti delle città, delle istituzioni, dei reparti dell’esercito... 39 Il trasporto avveniva o per via di terra attraverso le regioni centrali dell’Asia con partenza dalla capitale della Cina, o per via di mare dall’India occidentale verso i porti del Golfo Persico e del Mar Rosso (Myos Hormos, Berenice), e di qui, attraverso le vie carovaniere, ai porti del Mediterraneo. Sulla produzione e distribuzione della seta nel mondo antico vd. M. Besnier, in Dict. Ant. IV.2, 1251-1255, v. Sericum; H. Blümner, in RE II, A2 (1923), cc. 1724-1727, v. Serica; Marquardt 1892-1893, 124-133; Kádár 1967 e 1968; analisi tecniche in Granger-Taylor 1987; sui traffici commerciali (spezie, profumi, pietre preziose) tra Mediterraneo ed Oceano Indiano e sulle principali rotte investite da tale commercio in età romana si rimanda a Dihle 1978; De Romanis 1988; Id. 1996; per i rapporti di Roma con la Cina vd. Ferguson 1978; Raschke 1978. Questi due ultimi studi propongono un quadro di insieme, in base alle fonti occidentali ed orientali, dei traffici con l’estremo Oriente, sugli itinerari, sui centri e popoli implicati in tale commercio, sugli articoli e sulle merci di scambio. 40 Leggi del 369 e del 382 proibivano ad ambo i sessi di in- dossare o confezionare paragaudes, cioè tessuti di seta con bande dorate o di porpora: CTh X, 21, 1 e 2. Il ripetersi di tali prescrizioni dimostra la loro inefficacia. 41 Il drenaggio di oro verso la Cina, l’India e l’Arabia si aggirava secondo Plinio (NH 6, 101) intorno ai cento milioni di sesterzi all’anno, cifra ritenuta verosimile da Jones 1974, 144. Le importazioni non crearono contraccolpi sulla bilancia commerciale romana secondo Raschke 1978, 624-626, 634-637 e passim. 42 Sericarii (fabbricanti di tessuti, ma anche venditori di vesti e panni in seta) sono menzionati in CIL VI, 9678, 9891, 9892 = ILS 7600. I luoghi della vendita erano a Roma, come per tutte le merci di lusso, i quartieri intorno al Foro (vicus Tuscus, vicus Iugarius, Sacra via). Per i sericarii del vicus Tuscus vd. Mart., Ep. 11, 27, 11. Sul mondo del commercio in tale comparto della città si rimanda a Papi 1999 con bibliografia e n. 347. 43 “Buoni” quelli che la rifiutano: Alessandro Severo (SHA, Alex. 40, 1), Aureliano (SHA, Aurel. 45, 4), Tacito (SHA, Tac. 10, 4). 44 Si tratta di un topos retorico che diventa ossessivo nella tarda antichità: elenco di fonti in Delmaire 1989, 449, n. 15. 45 Rispettivamente Edic. Diocl. 24, 1 e 23, 1. 46 Delmaire 1989, 464-470 (in part. 467-468). 14. - Molteplici pieghe di tessuto schiacciato e mineralizzato (Foto M. Necci). 35 a b 15a-b. - Frammento calcarizzato con resti di papiro a diversi ingrandimenti (Foto M. Necci). stato che può acquistare e vendere fibre e tessuti, anche a causa delle condizioni di belligeranza tra l’impero e il regno persiano, nel cui territorio parte della seta transitava. Infine, nel 552 due monaci dall’India secondo Procopio (o un persiano secondo Teofane) 47 riuscirono ad introdurre in Occidente le uova del baco da gelso (o il baco stesso), affrancando da quel momento il Mediterraneo dalle importazioni estremo-orientali 48. Il papiro Enigmatico è il ritrovamento tra i resti vegetali di due minuti frammenti di diversi fogli di carta di papiro arrotolati e schiacciati, certamente iscritti, anch’essi fasciati con tessuto (sicuramente lino, ricoperto forse da seta 49) da interpretare come custodia del rotolo (si tratta di un amuleto?) (fig. 15a-b). La modestissima dimensione dei frammenti ha consentito di scorgere la presenza sui fogli del papiro di righe di inchiostro, ma ci priva della possibilità di conoscere il contenuto dell’iscrizione. 16. - Deir el-Medineh. Amuleti realizzati con fogli di papiro iscritti, piegati e sospesi ad una collana a nodi (da Koenig 1994, figg. a pp. 81-82). I terminali degli scettri sono in vetro fuso con l’eccezione di una sfera in pietra dura, che rappresenta per la sue dimensioni e per la sua purezza l’oggetto più prezioso dell’intero insieme 50. Si tratta di un quarzo policristallino, ricavato da un unico blocco già probabilmente subsferoidale, di colore omogeneo, azzurrino/biancastro, lattiginoso, traslucido, cioè della varietà a cui è associato il nome di “calcedonio” tout court 51, a cui corrispondono le denominazioni latine iaspis, iaspis aërizusa, capnias, molto apprezzato nel mondo achemedide (neoassiro, neobabiblonese), nella Persia achemenide, nella glittica greco-persiana. A seconda del riflesso della luce la nostra sfera assume colorazioni intense di un azzurro che rispecchia i termini utilizzati da Plinio: “simile al cielo” (aëri similem: NH 38, 37, 115) e “simile al cielo di un mattino d’autunno” (caelo autumnali matutino similis: ibid. 116). Di questo minerale esistono ed erano note in antico numerose varietà, tutte riferite allo stesso nome (iaspis), ma caratterizzate da diverse gradazioni cromatiche (dal rosso al rosa, dallo smeraldo all’azzurro): Viret et saepe tralucet iaspis, etiam victa multis antiquitatis gloriam retinens. plurimae ferunt eam gentes, smaragdo similem Indi, Cypros duram glaucoque pingui, Persae aëri similem, quae ob id velut aërizusa; talis et Caspia est. caerulea est circa Thermodontem amnem, in Phrygia purpurea et in Cap- 47 Procop., HA 25 e 26; Id., BG 4, 17; Theoph., apud Mueller FHG, 4, 270, 3. 48 Delmaire 1989, 451-454. 49 Marco Ricci ha identificato il papiro all’interno di due minuti frammenti calcarizzati. L’identificazione è stata confermata dall’analisi paleobotanica (infra, Celant, 233, fig. 6). Durante il trattamento chimico lo strato di seta si è probabilmente dissolto. Sulla pianta (Cyperus papyrus L.), il suo habitat (Alessandria e valle del Nilo) e sulla sua trasformazione in supporto di scrittura si rimanda alla sintesi di Soldati 2006; Plinio (NH 13, 74-81) è l’unica fonte che descrive il processo di produzione dei rotoli e i molteplici tipi che se ne ricavavano. L’ipotesi che i frammenti in questione possano appartenere ad amuleto (vd. fig. 16) è solo una suggestione, di cui sono grata a Loredana Sist. 50 Particolare della sfera in Ferrandes - Pardini, fig. 6 in questo volume. 51 Il nome deriva da Chalkedon, città dell’Asia Minore. Le varietà più pregiate nell’antichità provenivano dalla Siria, dal- Il vetro e il calcedonio 36 I Segni del Potere 17. - Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Collezione Castellani, dal suburbio di Roma. Ricomposizione di Augusto Castellani di uno scettro forse di età tardoantica (Foto L. De Masi; negativo Soprintendenza Archeologica dell’Etruria Meridionale, nr. 53993). Scettro e sfere in vetro e in calcedonio. Uno tra i rari scettri antichi conosciuti, trovato in frammenti, proviene dal suburbio di Roma (oggi nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia) 52 (fig. 17). La ricomposizione e le aggiunte ad opera di Augusto Castellani hanno dato luogo ad un oggetto dalla forma poco verosimile (cilindro in diaspro e osso, rocchetto centrale in cristallo di rocca e coronamento a forma di testa d’aquila in sardonice). Nulla è dato sapere sulle circostanze del ritrovamento e di conseguenza sulla sua datazione (età medioo tardo-imperiale?). Attraverso Alessandro Castellani passò nel 1872 al British Museum di Londra un altro oggetto, una sottile bacchetta in oro, forse da Taranto (dalla tomba denominata “della Sacerdotessa”), spettante a un diverso orizzonte culturale e cronologico (fine III/inizi II secolo a.C.) 53, che qui si cita per il fatto che essa ha curiosamente come coronamento, al di sopra di un capitello corinzio, un frutto (?) di vetro verde avvolto in otto foglie di acanto (fig. 18). Alla stessa età sono attribuiti due altri “scettri” rinvenuti a Canosa, rispettivamente nella tomba degli Ori e nella tomba detta “Scocchera B” (entrambe femminili) 54, costituiti da bacchette di legno rivestite da una rete d’oro, che, alla luce dei contesti di provenienza, potrebbero avere un significato funerario e/o essere collegati all’eroizzazione delle defunte. Ben più risalenti sono gli scettri di alcune tombe maschili, “regali” o “principesche” di età orientalizzante (VII secolo a.C.), di area etrusca o picena, con asta lignea e coronamento sferico (“a pomo”) variamente decorato con lamine di ferro o bronzo, com’è il caso dello scettro della tomba n. 5 di Monte Michele a Veio o i due scettri della tomba 1 di Villa Clara, loc. Cro- l’Egitto, dall’Arabia e dall’India occidentale: Devoto - Molayem 1990, 27-46, in part. 31 per la nostra varietà, nota come calcedonio saffirino, semitrasparente, traslucido, opaco in massa, con lucentezza tipica ceroide/grassa; Gagetti 2006, 52-53. 52 Gagetti 2006, 405, Cat. nr. H11, tav. LXV; Moretti Sgubini 2000, 197, Cat. nr. 164 (lung. cm 33, 3). Va segnalato che lo scettro Castellani divenne il modello degli scettri ricostruiti in gesso nelle mani di due statue di consoli datate al 400 d.C., rinvenute alla fine dell’Ottocento nel tamponamento di una nicchia del c.d. Tempio di Minerva Medica a Roma (oggi nel Museo della Centrale Montemartini). Tale restauro è stato in tempi recenti rimosso. 53 Moretti Sgubini - Boitani 2005, 194-196, figg. 8, 29 (lungh. cm 52). 54 Lippolis 1985, 321-326, Cat. nr. 275 (lung. cm 50); qui anche per la bibliografia che registra identificazioni diverse per l’oggetto (conocchia, ventaglio). Esso ha ai lati del coronamento due piccole figure di Nikai in oro disposte in orizzontale. padocia ex purpura caerulea, tristis atque non refulgens. Amisos Indicae similem mittit, Calchedon turbidam (Plin., NH 38, 37, 115). Dalle varietà piuttosto che dai paesi di provenienza dipendeva secondo il Naturalista il loro pregio e il loro valore: Sed minus refert nationes quam bonitates distinguere. Optima quae purpurae aliquid habet, secunda quae rosae, tertia quae smaragdi, singulis Graeci nomina ex argumento dedere. Quarta apud eos vocatur boria, caelo autumnali matutino similis; haec erit illa, quae aërizusa dicitur (Plin., NH 38, 37, 116). Benché sia impossibile determinate l’origine della nostra pietra, è ipotizzabile una provenienza microasiatica, vicino-orientale o indiana. I riscontri archeologici L’eccezionalità della scoperta risiede nella preziosità dei materiali con cui i singoli oggetti sono realizzati (il calcedonio di uno degli scettri, l’oricalco delle lance, la seta forse intessuta d’oro, l’oricalco e la foglia d’oro dello scettro con sfera verde), nella loro unicità (i confronti possibili sono quasi unicamente con raffigurazioni su rilievi, monete, pitture, cammei di età imperiale e su avori tardoantichi) e nel loro intrinseco valore antiquario e storico. La loro unicità è stata la causa delle difficoltà che abbiamo avuto al momento della scoperta di capire di cosa si trattasse. 37 Clementina Panella cifisso a Matelica 55. Non può sfuggire la somiglianza di questi oggetti con quelli definiti “mazze”, documentati nei corredi di Matelica (impugnatura in legno, “pomo” in calcare), e soprattutto la continuità morfologica di questo tipo di scettro che, attraversando i millenni, raggiunge l’età medievale (vd. n. 62), coinvolgendo anche il nostro terminale in calcedonio, vale a dire lo scipio conservato nel Tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio (vd. infra, 48-49). Come coronamenti di scettri sono stati identificati da Elena Gagetti alcune aquile e piccoli busti imperiali in materiale prezioso non metallico, talvolta già rilavorati in età antica e/o reimpiegati in età moderna 56. Base di partenza per tali attribuzioni è stato il terminale del noto bâton cantoral della Sainte-Chapelle conservato nel Cabinet des Médailles di Parigi, costituito da un busto in calcedonio bianco di Domiziano (se non già di un imperatore giulioclaudio e quindi più antico), rilavorato nella seconda metà del IV secolo e in età medievale rimontato a fini liturgici su un’asta di ebano 57. Alla stessa categoria (cioè ad uno scettro sormontato da un busto) potrebbe appartenere una testina in argento raffigurante Massimiano del Museo di Belgrado, rinvenuta nella Serbia orientale 58. L’oggetto richiama alla mente altri due bustini di argento conservati a Mainz, di provenienza sconosciuta (forse dall’Asia Minore), identificati con ritratti di Tetrarchi, intenzionalmente danneggiati in antico, attribuiti ad ornamenti di signa e collegati, come le nostre insegne, ai numerosi conflitti dell’età tetrarchica 59. Non possono essere utilizzati per un confronto altri esemplari generalmente identificati come scettri, costituiti da piccolissimi busti di divinità in bronzo, impiantati su aste filiformi in ferro attribuiti ad età romana ma di tradizione celtica, rinvenuti in Britannia, il cui carattere rituale è provato dai luoghi di ritrovamento (in prossimità di templi o in contesti funerari) 60. Se l’antichità è così avara di documenti, due scettri di età post-antica possono essere qui menzionati, nel primo caso per l’uso del materiale (calcedonio lavorato a spicchi come terminale di uno scettro in diaspro del Kunsthistorisches Museum di Vienna, di incerta provenienza, datato alla metà del XIV secolo, fig. 19b) 61, nel secondo per la forma del coronamento sferico dell’asta (sfera in 55 Sui segni del potere di area etrusca o etruschizzata di età orientalizzante si rimanda a Delpino 2000 (in part. per gli scettri, 224); sulla tomba di Monte Michele a Boitani 2001, 113-118 (in part. 115, I.G.8.15, lung. cm 69); sulle tombe di Villa Clara a Matelica, a Silvestrini - Sabbatini 2008, (in part. per lo scettro 79-80, Cat. nr. 69, lung. cm 35; per le “mazze”, ibid., 78, Cat. nr. 67; 213214, Cat. nrr. 259-260). Incerta è l’identificazione come scettro (spillone?) di un oggetto della tomba Barberini a Palestrina, con coronamento in oro costituito da un bocciolo a forma di fiore di loto (Cristofani - Martelli 1983, 260, nr. 28, lung. cm 34,5). Ringrazio Anna De Santis per queste segnalazioni 56 Gagetti 2006, 462-463 e Cat. nrr. A20 (Augusto), A27 (Traiano), A34 (Adriano), A36 (Caracalla), A40 (Giuliano), A42 (Domiziano). Sugli scettri aventi per coronamento busti, vd. infra. 57 Ibid., 218-221, Cat. nr. A42, con bibliografia completa e discussione sulle diverse identificazioni del ritratto. La Gagetti segnala che in altre chiese di Francia dovevano essere stati reimpiegati su tale tipo di “bastoni” oggetti analoghi, probabilmente provenienti da Bisanzio. Già Babelon 1897, 167, Cat. nr. 309 aveva pensato al coronamento di uno scettro; il personaggio raffigurato sarebbe per Vollenweider - Avisseau-Broustet 2003, 203-204, Cat. nr. 260, Costantino; per Bergmann - Zanker 1981, 409-410, Domiziano con una rilavorazione nel IV secolo. 58 Popović 2000, figg. 1-2 (h. cm 5, 8; peso gr. 137, 36). 59 Aurea Roma, 568-569, Cat. nrr. 234-235 (h. cm 11; peso gr. 60). 60 Henig - Cannon 2000: bustini di tre dee madri, supportate da una voluta di acanto, poste nelle fessure di una punta di lancia in bronzo a tre lame, da Aldwort, Westberkshire (alt. della punta cm 4,5). Nell’articolo si citano con bibliografia altri esemplari analoghi con bustini di divinità (Marte, Venere?) in cima a sottili aste, rinvenuti a Brough (East Yoorkshire); Ludford Magna (Lincolnshire); Kirmgton (Lincolnshire); Eastbury (Berkshire). Benché la datazione sia incerta (prima o media età romana?), questo piccolo gruppo di bastoncini è stato messo in rapporto con l’avanzata della romanizzazione nell’area. 61 Devo la segnalazione a Daniele Manacorda. Nel Kunsthistorisches Museum di Vienna si conserva un altro scettro più piccolo, del tutto analogo (vd. fig. 19a), ma con coronamento in 18. - London, British Museum, forse da Taranto, tomba detta “della Sacerdotessa”. Piccolo scettro in oro e particolare del coronamento: capitello e foglie di acanto che avvolgono una sfera (un frutto?) in vetro verde. Fine III/inizi II secolo a.C. (Foto N. Bonaccini; image reproduction for non-commercial purposes, courtesy of the Trustees of the British Museum, London; Inv. GR 1872.6-4.842 [Jewellery 2070]). 38 I Segni del Potere cristallo di rocca dello scettro dei Re d’Ungheria conservato nel Parlamento di Budapest, datato al X secolo, fig. 20) 62. La sfera, di dimensioni all’incirca analoghe a quelle del nostro calcedonio (cm 7,3), presenta ad intaglio il profilo di tre leoni ed è fissata all’impugnatura in legno rivestito in argento dorato (lung. cm 29,5) mediante una complessa montatura in filigrana d’oro da cui pendono piccole sfere anch’esse in oro, appese a catenelle. Va segnalato che in Occidente, a partire X secolo con qualche anticipazione nel IX secolo, si afferma la sceptri traditio nei rituali di incoronazione di re e imperatori e l’attributo trova una consistente documentazione materiale nei tesori dei regnanti d’Europa, com’è il caso degli oggetti sopra menzionati. Un’anticipazione di questa prassi potrebbe essere costituita da una sfera in cristallo di rocca (diam. cm 5) attribuita recentemente ad un terminale di scettro da D. Quast (2010), proveniente dalla tomba di Childerico a Tournai (Belgio), re dei Franchi e ufficiale romano (morto nel 482 d.C.), il cui ricchissimo corredo (vd. n. 369) è andato quasi completamente perduto. Altri esemplari nello stesso materiale dalle tombe dei re merovingi a Lutetia – delle quali nulla resta essendo state violate e distrutte durante la Rivoluzione del 1789 – farebbero pensare alla persistenza in questo ambiente di un simbolo del potere (scettro con globo) ereditato dal mondo e dalla cultura romana. Di ambito bizantino, ove invece lo scettro non comparirà mai nelle cerimonie di intronizzazione 63, sono due esemplari, il primo, in avo- 19a-b. - Wien, Kunsthistorisches Museum (Inv. KK 1713 e 1714 - 8688), dall’Italia (?). Scettri con terminale in calcedonio (a destra) e in diaspro a sinistra. Metà XIV secolo (?). diaspro, anch’esso intagliato a spicchi. Le somiglianze di questi due esemplari con lo scettro di Roma rimontato da Augusto Castellani potrebbero far pensare che il famoso collezionista ed orafo abbia tratto ispirazione per la sua ricostruzione da questi o da altri oggetti simili. 62 Schramm 1955, 281-285; Alföldi 1948-1949, 24 ss., tavv. 17, 1, 10; 18, 4; Tóth - Szelényi 1996, 53-56, figg. 89-94, con bibliografia aggiornata. La sfera sarebbe stata prodotta e intagliata in un’officina del califfato fatimida dell’Egitto. Secondo Alföldi 1948-1949 l’insieme costituito dall’impugnatura e dalla sfera, cioè questo tipo di scettro, a cui associa per cronologia e per fattura, altri oggetti simili con coronamento di sfere in cristallo, in osso, in argento, in smalto, definiti kugelköpfige Keulenzepter (mazze con coronamento sferico), è da svincolare dalla tradizione iconografica occidentale e bizantina e da assegnare a quel crogiolo di culture vicino-orientali (postsassanidi, protofatimide, dei popoli delle steppe) che caratterizzano la storia dell’Asia e dell’Europa orientale dall’VIII secolo in poi. Si richiamano in particolare: a tav. 16, 8 un’altra sfera di cristallo spettante ad uno scettro, conservata nel Deutsches Historisches Museum di Berlino (l’antico Zeughaus); a tav. 18, 2 una sfera in osso da una tomba avara di Erzsébet in Ungheria; a tav. 16, 1 uno scettro in argento con piccola sfera all’estremità in una tomba di Taganča presso Kiev; a tav. 6, 1-3 la sfera dell’VIII secolo ricostruita con le placche in smalto riutilizzate nell’Aiguière di St-Maurice d’Agaune (Svizzera); a p. 25 la menzione di una sfera di cristallo di rocca di fattura uguale a quella dello scettro ungherese, appartenuta ad Enrico II, nel tesoro della cattedrale di Bamberg. Vd. in questo contributo anche il riferimento ad altri scettri medievali con terminale sferico riprodotti in manoscritti (tav. 6, 4), miniature e stoffe (tav. 16, 2-6), avori (tav. 18, 1) e sigilli del X e dell’XI secolo (tav. 16, 7, 9: di Ottone II e di Enrico III di Germania). Su questi due sigilli la tradizione dello scettro lungo con sfera è certamente un’eco nella tradizione classico-romana. Ad essa fanno riferimento alcune iconografie bizantine che registrano nelle mani degli imperatori scettri costituiti da una lunga asta sormontata da sfera (gli scettri “a pomo” di Pertusi 1976, 504, nn. 53-54, tav. I, fig. 1E), a cui si aggiungono talvolta la croce (Bastien 1992-1994, 430, figg. 3, 6), pennacchi, altre sfere, etc. (Pertusi 1976, tav. I, fig. 2). È ipotesi prospettabile, ma non verificabile, che tale tipo di scettro abbia assunto con il passare del tempo anche significati diversi da quelli originari (rappresentazione, ad esempio, della “verga di Mosé”, sicuramente impiegata nel cerimoniale imperiale, così come esso è illustrato nel De caerimoniis di Costantino Porfirogenito nel X secolo: Pertusi 1976, 515). 63 Per l’analisi delle fonti letterarie a supporto di tale assunto, si rimanda all’attenta rilettura del cerimoniale bizantino condotta da Pertusi 1976, che considera gli scettri, pur se costantemente presenti nelle immagini degli imperatori di Bisanzio su monete, mosaici, miniature, un attributo “secondario”, essendo in tale am- a b 39 20. - Budapest, “Casa della Patria” (Palazzo del Parlamento). Insegne reali ungheresi: scettro in oro e argento e sfera del coronamento in cristallo di rocca intagliato. X secolo (da Tóth - Szelényi 1996, fig. 89). rio, appartenente a Leone VI (fine del IX secolo) del Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino che è nella tradizione degli scettri coronati da una basetta con busti di imperatori e/o di divinità 64, ma che rappresenta un unicum in tale ambiente, il secondo è una croce tempestata di gemme del Tesoro della Cattedrale di Tournai che è stata interpretata come terminale di uno scettro bizantino del X secolo 65. Anche lo scettro cruciforme, che è l’esito del processo di cristianizzazione dell’impero e dei suoi simboli, si riallaccia alla tradizione tardoantica e trova ampia eco nelle emissioni monetali già nel V secolo 66. nostro contesto (vd. fig. 4c, Cat. nr. 8), che ha tuttavia una lama di forma diversa e non è ageminata. La presenza di intarsi è stata esclusa per questo oggetto e per le lance ad alette dalle analisi ai raggi X (vd. infra, 217218, fig. 1). A lama singola e completamente differenti per l’uso di trafori, di “occhi” e di decorazioni sovrapposte è la variegata serie di tipi che va sotto il nome di lance dei beneficiarii consulares, rinvenute in alcune città di frontiera delle province occidentali, che lungi dall’essere armi, sono anch’esse, come sostiene A. Alföldi, distintivi di un potere (quello imperiale) trasmesso a personale subordinato in occasioni particolari 69. Punte di lancia a sei lame in oricalco e ferro e punta con base sagomata “a pelta”. Nessun confronto archeologico o iconografico esiste per le grandi punte di lancia a sei lame che partono da un calice di foglie o di petali (vd. fig. 4a-b, Cat. nrr. 5-6). Per non allontanarci troppo dai limiti cronologici del nostro contesto, possiamo citare alcune lance da cerimonia in ferro, sia a lama semplice con nervatura centrale, sia con lama a sezione triangolare, datate alla seconda metà del IV secolo, come i due esemplari dalla Mosella presso il ponte romano di Treviri (figg. 21-22) e quello da Hérapel in Lotaringia, con piccoli intarsi in rame ed ottone a forma di scudi, triangoli, busti 67. Una delle due lance dalla Mosella presenta una lama con base “a pelta” (fig. 22) 68 che l’avvicina a quella dell’esemplare a punta semplice del Punte di lancia in ferro con alette laterali. Per le due le punte di lancia in ferro con lama romboidale, alette laterali ad uncino desinenti in staffe che servivano a bloccare l’asta (vd. fig. 5, Cat. nrr. 9-10), forgiate in unico pezzo, attribuite da Marco Ricci a portastendardi, occorre rifarsi unicamente alle numerose riproduzioni di vessilli sui monumenti figurati e sulle monete (vd. img. 57 ss.), ove i drappi compaiono fissati a lance in genere dalla punta corta e di forma triangolare. Nessuno stendardo è sopravvissuto dall’antichità ad eccezione di un esemplare in lino databile probabilmente al III secolo, con rappresentazione di Vittoria in giallo su fondo rosso rinvenuto in Egitto, ora al Museo Puskin di Mosca (fig. 23) 70, e di un secondo esemplare, anch’esso dall’Egitto, in tessuto gros- biente simboli primari di investitura, “emblematici in senso assoluto del potere in sé”, l’abito di porpora (tunica e clamide) e il diadema. Il mondo bizantino conserva cioè per secoli, come segni distintivi del potere supremo, quelli “essenziali” del mondo romano (supra, Tantillo). Sul cerimoniale e l’assunzione dei simboli imperiali “romani” da parte dei re barbari vd. Arce 2007, con bibliografia a p. 31 e Morrisson 1997. 64 Qui il coronamento è una sorta di parallelepipedo con figure a rilievo sui quattro lati: Pertusi 1976, 510, n. 69, tav. VIII. 65 Pertusi 1976, 510-511, n. 70, tavv. V-VII (con bibliografia). 66 Sullo scettro cruciforme sulle monete vd. Bastien 19921994, 428-432 (in part. 430, figg. 1-6); altre osservazioni per l’adozione di questo tipo di scettro a Bisanzio in Pertusi 1976, 503-504, passim, tav. I, fig. 1A-D, F (con bibliografia); Morrisson 1997, 759-760. 67 Cüppers 1984, 294-296, Cat. nr. 155a-c; Costantino il Grande, 269, Cat. nr. 100; vd. ora anche Roma e i Barbari, 199, Cat. II.13. 68 Cüppers 1984, 295, 297, Cat. nr. 155b. 69 Lance con lame frastagliate compaiono anche su rilievi im- periali come insegna del principe: vd. la hasta tenuta da un armigero sul Pannello A della Cancelleria (img. 21) o su uno dei rilievi traianei reimpiegati sull’Arco di Costantino: Alföldi 1959, 5-6, fig. 7, 1-2 (particolari) e fig. 10, 10 e 43. Un’esauriente documentazione delle punte di lancia dette dei beneficiarii consulares (truppe speciali utilizzate nell’esercito per compiti particolari) trovate nei castra delle province di frontiera, è in Alföldi 1959, 11-12, tav. 10, con bibliografia. Per i ritrovamenti di punte di lancia del tutto analoghe dalla Saona si rimanda a Feugère 1990, 110-111, Cat. nrr. 129-130; Id. 1993, 60-61; Feugère - Bonnamour 1996. Secondo M. Feugère le punte forate potrebbero aver retto dei montanti orizzontali con una tabella ansata o una bandiera, mentre per questo studioso e per A. Alföldi questa variegata serie di tipi potrebbe essere stata posta anche sulla sommità di altre insegne (per esempio dei vessilli). Punte di lancia non decorate, ma troppo fragili per essere interpretate come armi, e perciò attribuite a punte di stendardi, vengono dalla stessa Saona e da Attray, Loiret: Feugère 1990, 109, Cat. nr. 128; Canny 2007. 70 Rostovtzeff 1942, tav. IV; i motivi geometrici che inquadrano ai quattro angoli la figura si ritrovano (casualmente?) sui 40 21. - Trier, Rheinisches Landesmuseum, dalla Mosella, presso il ponte romano (Germania). Punta di lancia da cerimonia con intarsi in argento e ottone. Seconda metà IV secolo (da Costantino il Grande, Cat. nr. 100). 22. - Trier, Rheinisches Landesmuseum, dalla Mosella presso il ponte romano (Germania). Punta di lancia da cerimonia con lama a lati rettilinei e base sagomata “a pelta”. Seconda metà IV secolo (da Cüppers 1984, Cat. nr. 155b). solano (!), decorato con motivo floreale o geometrico, di cui abbiamo solo una segnalazione da parte di M. Feugère 71, ma che non siamo riusciti a rintracciare in altre pubblicazioni. Relativamente invece ai sostegni delle “bandiere” rare sono le punte di lancia interpretate, sempre in forma dubitativa, come portastendardo (vd. quanto detto a proposito delle lance dei beneficiarii a n. 69). Per quanto riguarda le due nostre lance va notato che le alette ricurve ricordano quelle poste ai lati della lama di alcune lance in ferro (identificate come “emblèmes d’étendards”, “lances de parade”) rinvenute in tombe di guerrieri/capi militari e diffuse alla fine del IV e nel V secolo nel Nord della Gallia e della Renania, finemente intarsiate in argento, rame e ottone e in alcuni casi iscritte, ma più lunghe e con punte di forma triangolare e nervatura centrale, e con alette laterali decorate con protomi ferine (figg. 24-26) 72. Il corredo della tomba di Vermand in Francia spetterebbe al comandante germano di un’unità militare romana che ivi stazionava, mentre i corredi di Rhenen in Olanda, attribuibili secondo l’editore a manifatture romane tarde, apparterrebbero ad un’unità di Franchi che serviva in una zona sensibile della frontiera. 23. - Mosca, Museo Puskin, dall’Egitto. Stendardo in lino con raffigurazione di Vittoria in giallo su fondo rosso. III secolo (Elab. M. Cola, da Rostovtzeff 1942, tav. IV). vessilli tenuti da legionari romani su due rilievi del monumento traianeo di Adamklissi: De Maria 1991, 140, figg. 147-148. 71 Feugère 1993, 57. Tra tutti i tessuti bizantini l’unico oggetto post-antico che può richiamare lo stendardo quadrangolare romano è il c.d. Vessillo di Urbino (in seta), conservato nella Galleria Nazionale delle Marche, del primo quarto del XV secolo: Babuin 2001, 32, 80, fig. 80, con bibliografia a n. 130. 72 À l’aube de la France, 141-142, Cat. nr. 223a, fig. 95, da Bourges (Cher; Musées du Berry) in Francia, lancia detta in base all’iscrizione del “Patricius” di Bourges (“Patricius Regius”), della seconda metà del V secolo (vd. anche Roma e i Barbari, 428, Cat. V.1) (qui fig. 24); 142, Cat. nr. 224, da Nismes (presso Namur) in Belgio, V secolo; 142-143, Cat. nr. 225, fig. 96, da Bargen (Baden-Württemberg) in Germania, che dovrebbe risalire al V secolo, ma rinvenuta in una tomba del VII (qui fig. 25); 153, Cat. nr. 242d, fig. 101, da Rhenen (prov. Gelderland) nei Paesi Bassi della prima metà del V secolo; 173, Cat. nr. 289f, fig. 126, da Vermand (Aisne) in Francia del 400 ca. Un altro esemplare, datato al V secolo, proveniente da una tomba merovingia di Cutry (Meurthe-et-Moselle), forse della seconda metà del VI secolo, potrebbe affiancarsi a questa serie (in ferro con intarsi in argento, iscrizione sulla lama e protomi zoomorfe sulle corte alette in bronzo: Lejoux 2008, 446 e in Roma e i Barbari, Cat. V.10) (qui fig. 26). La lama più sottile rispetto agli esem- plari sopra citati avvicina questo pezzo alle lance di età più tarda (vd. infra e in particolare l’esemplare di Castel Trosino di cui si parlerà qui di seguito). L’epigramma in latino, ageminato in argento sulla lama, fa chiara allusione alla caccia: «Che tiri questa lancia in vaste foreste / colui che ama affrontare feroci bestie», laddove il decoro raffinato fa pensare piuttosto che ad uno strumento utilitario ad un oggetto da parata, utilizzato come simbolo di rango e di potenza, per altro probabilmente trasmesso, come nel caso della lancia di Bargen, per più generazioni. Sarebbero i barbaricarii, in origine tessitori di fili d’oro (così ancora nell’Editto dei Prezzi di Diocleziano: 20, 5, 8) gli artigiani che in età tardoantica decoravano gli oggetti in metallo, soprattutto le armi e gli equipaggiamenti militari prodotti dalle fabricae di stato. La Notitia Dignitatum indica alle dipendenze del comes sacrarum largitionum tre praepositi branbaricariorum (per barbaricariorum) et argentariorum a Arles, Reims e Trier (ND, Occ. XI, 74-77): Jones 1964, 835; Delmaire 1989, 483-486 (qui anche per un’esemplificazione, attraverso il ricorso ai ritrovamenti archeologici, degli oggetti che uscivano dalle mani dei barbaricarii, tra i quali l’autore menziona anche le lance con decorazioni damaschinate di Bargen, Rehnen, Vermand e degli altri siti su menzionati). Su questi artigiani, da non confondere con i fabbricanti di vasellame o di armi, vd. anche Baratte 1992, 97. 41 24. - Bourges, Cher, Musées du Berry, dal Cimitière des Capucins di Bourges. Punta di lancia da cerimonia detta del “Patricius Regius”, con cannula “ad alette” laterali e testine zoomorfe. Seconda metà V secolo (da Roma e i Barbari, Cat. V.1). 25. - Karlsruhe, Badisches Landesmuseum, da Bargen, BadenWürttenberg. Punta di lancia da cerimonia con cannula “ad alette” laterali e testine zoomorfe. V secolo, da una tomba del VII secolo (da À l’Aube de la France, Cat. nr. 225). 26. - Cutry, Commune de Cutry, da Cutry, Meurthe-et-Moselle. Punta di lancia da parata con cannula “ad alette” laterali e testine zoomorfe. V secolo, da una tomba della seconda metà del VI secolo (da Roma e i Barbari, Cat. V.10). L’iscrizione dell’esemplare di Bourges fa riferimento ad un Patricius Regius, cioè alla carica di un alto funzionario del regno visigoto del V secolo. Il fatto poi che questo tipo di lancia compaia in corredi funerari particolarmente ricchi, fa pensare a simboli di potenza posseduti dai capi piuttosto che ad armi da caccia, com’è ad esempio la lancia con punte ad alette documentata sul dittico detto del “Prete imperiale”, conservato al Louvre e datato intorno al 400 d.C.(?) (img. 53) 73. Secondo M. Feugère le lance con punta “ad alette” usate per la caccia (“Saufeder”, spiedi) apparirebbero in Gallia nel II secolo e diventerebbero armi specificamente militari alla fine del IV secolo 74 (pensando agli oggetti presenti nei corredi che abbiamo appena citato), per conoscere uno sviluppo “spettacolare” all’inizio del Medioevo (riferendosi agli esemplari del VI e VII secolo e oltre di cui parleremo in seguito). Le due punte del Palatino dimostrano che già agli inizi del IV secolo (se non prima) lance con alette hanno funzioni militari, senza che ciò impedisca di pensare che il tipo sia stato usato prima (vd. un denario di C. Postumius At(---) della zecca di Roma del 74 a.C., sul cui rovescio una lancia “ad alette” compare sotto le zampe di un cane in corsa 75, img. 52) e dopo nelle attività venatorie (vd. il dittico del “Prete imperiale” o l’allusione alla caccia dell’iscrizione impressa sulla lancia di Cutry, già citata), come accade per tutte le armi. Per questo genere di manufatti è infatti difficile dimostrare l’anteriorità di un loro impiego (nella cac- Delbrueck 1929, 221-223, Cat. nr. 57. Feugère 1993, 247; Lebedynsky 2001, 163-164: le “alette” avrebbero impedito alla lancia di conficcarsi profondamente nel corpo dell’animale in modo da poter essere estratta con facilità. Ma se usata come arma da combattimento, tale opportunità avrebbe potuto rivelarsi controproducente dal momento che agevolava il recupero dello strumento da parte dell’avversario. 75 RRC, 407, 394/1a. 73 74 42 27. - München, Archäologische Staatssammlung, da Wettringen, Bayern. Punta di lancia con cannula ad “alette” laterali e testine zoomorfe. Prima età merovingia (da Dannheimer 1976, Cat. nr. 208).v 28. - Krefeld, Burg-Linn Museum, da Krefeld-Gellep, tomba 1782. Punta di lancia con cannula ad “alette” laterali (“Saufeder”). Secondo quarto del VI secolo (da Martin 1993, fig. 3, 1). 29. - Roma, Museo dell’Alto Medioevo, da Nocera Umbra, tomba 6. Punta di lancia con cannula ad “alette” laterali e testine zoomorfe. Ultimo terzo del VI secolo (da Rupp 2005, Cat. nr. 2). 30. - Roma, Museo dell’Alto Medioevo, da Castel Trosino, tomba F. Punta di lancia con cannula ad “alette” laterali e spirale ageminata in ottone. Prima metà del VII secolo (da Arena - Paroli 1994, IV.3; Paroli - Ricci 2008a, tav. 3, 1a-c). Punte di lancia in ferro ed oricalco con alette laterali. Le due punte strette e lunghe con lama in ferro, cannula in oricalco e alette sottili e incurvate simili ad una foglia stilizzata il cui prolungamento costituisce la staffa per l’inserimento dell’asta (vd. fig. 7, Cat. nnr. 11-12), forgiate insieme alla cannula, attribuite in via di ipotesi da Marco Ricci a portabando, possono essere confrontate con maggior precisione sia alle lance di ambiente germanico della fine del IV e del V secolo di cui abbiamo appena parlato (vd. n. 72) e alle quali potrebbe alludere nello stesso V secolo Sidonio Apollinare (Ep. XX, 3: “lanceis uncatis”) 76, sia ad un tipo, noto anch’esso in corredi funerari particolarmente ricchi di tombe della Renania settentrionale/Westfalia, ma del VI e VII secolo (da Wettringen della prima età merovingia, fig. 27 77, e da Krefeld-Gellep – tomba 1782 – del secondo quarto del VI secolo, fig. 28 78). Quest’ultimo tipo avrà successo anche in Italia, in ambito longorbardo, come dimostrano ad esempio gli esemplari di Nocera Umbra (tombe 6 e 32) (fig. 29) 79, di Castel Trosino (tomba F) (fig. 30) 80, rispettivamente dell’ultimo terzo Vd. M. Ricci, in Panella - Ferrandes - Pardini - Ricci 2006, 738 e in questo volume, 198. 77 Dannheimer 1976, 23, Cat. nr. 208, tav. a p. 119. Due esemplari simili, ma senza precisa datazione, vengono dalla necropoli di Charney-les-Chalon (Saône-et-Loire), in Borgogna: Bailly 1990, fig 103, 8, 11. 78 Pirling 1964, 196, nr. 12; Id. 1974, 61, tav. 45-52; Les Francs, 71, Cat. nr. 160; Martin 1993, 395 e 403, fig. 3, 1: arma da caccia (“épieu”, spiedo) per l’autore. 79 Rupp 2005, 10, Cat. nr. 2; 195, tav. 13, 2: tomba 6 = Arena - Paroli 1994, 52, IV.1: «dell’ultimo terzo del VI secolo»; Rupp 2005, 47, Cat. nr. 3; 233, tav. 51, 3: tomba 32. 80 Arena - Paroli 1994, 53, IV.3; 34, tav. IVb: tomba F della prima metà del VII secolo, vd. anche Paroli - Ricci 2008a, 19, tav. 3, 1a-c; 330, F.1. cia) rispetto ad un altro (nella guerra), mentre è possibile una loro intercambiabilità d’uso. I nostri due esemplari si differenziano notevolmente da quelli più tardi (di Bourges, di Vermand, etc.) per la forma romboidale della lama e per l’assenza di decorazioni (plastiche e incise), denunciando una loro anteriorità cronologica e/o una diversa funzione (portastendardo). Le alette infatti, pur derivando forse da un determinato tipo di lancia, assolverebbero al compito di reggere il montante orizzontale degli stendardi. 76 43 Clementina Panella 31. - Torino, Museo di Antichità, da Testona, Moncalieri (TO), necropoli. Punte di lancia con cannula ad “alette” laterali. Secondo terzo del VII secolo (da Hessen 1971, Cat. nnr. 184-188). 44 I Segni del Potere del VI e della prima metà del VII secolo 81, di Testona (Moncalieri, Torino) del secondo quarto del VII secolo (fig. 31) 82, di Verona (Museo di Catelvecchio) 83 e godrà di larga fortuna nell’alto Medioevo: per la prima età carolingia si segnalano le lance definite “Flügellanzen” con alette più o meno lunghe, ma decisamente orizzontali e prive di decoro (fig. 32) 84. Un tipo di lancia simile è l’attributo della città di Roma raffigurata su una vignetta di un manoscritto tardo della Notitia Dignitatum, ma da originale datato al 425 o al 430 d.C. 85, che combina le alette laterali perfettamente orizzontali con una lama triangolare con lati rettilinei (img. 54) 86. È possibile che l’illustratore rinascimentale nel caratterizzare attraverso scudo e lancia il potere militare di Roma abbia seguito l’originale. Lance del tutto simili con piccole alette perfettamente orizzontali si trovano infatti nella scena di battaglia tra Troiani e Rutuli del Vergilius Romanus, il manoscritto con le opere di Virgilio datato alla fine del V secolo, conservato nella Biblioteca Vaticana (Vat. Lat. 3867, f. 188v.), e nella raffigurazione del Passaggio del Mar Rosso su uno dei mosaici della chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma del secondo quarto del V secolo 87. Lo straordinario successo di questo tipo di lancia nel Medioevo giustifica le sue numerose rappresentazioni in pittura, scultura e in tutte le arti figurative. Tra i tanti esempi disponibili si è scelto di illustrarne solo uno (la lancia impugnata da San Maurizio sulla legatura dell’Evangeliario della Stadtbibliothek di Mainz della metà dell’XI secolo 88, img. 55) per dimostrare la continuità di un’arma di origine tardo-romana. L’iconografia del santo è, con poche varianti nell’abbigliamento, quella utilizzata nella rappresentazione di Stilicone nel dittico omonimo (img. 45). Sulle alette di una delle punte di lancia da Nocera Umbra (dalla tomba 6) vi sono testine di animali, forse attestate anche su un’altra punta (dalla tomba 32), ma non più conservate. Lo stesso accade nella punta di lancia di Wettringen, che tuttavia ha una lama del tutto particolare. La decorazione costituita dalle teste ferine sulle alette collega queste lance a quelle più antiche di Bourges, di Nismes, di Bargen, di Rhenen, di Vermand, di Cutry costituendo il trait-d’union tra i due tipi. Sembra in sostanza scorgersi un’evoluzione dalla fine IV/V al VII secolo (da Bourges a Castel Trosino, passando per Cutry) avvertibile soprattutto nella configurazione della lama che perde la forma triangolare e diventa sempre più stretta, sottile ed allungata. In riferimento all’esemplare della tomba F di Castel Trosino Lidia Paroli pensa ad una lancia di derivazione 81 Su queste due necropoli una sintesi con bibliografia è in Paroli - Ricci 2008b. 82 Hessen 1971, 20, tav. 20, Cat. nrr. 184-188 = Id., in I Longobardi a, 196, Cat. nr. IV.72: «tomba databile non prima del secondo terzo del VII secolo in base al confronto con esemplari d’oltralpe e precorritrice delle lance ad alette carolinge». 83 Christie 1991, 12-14, fig. 8 (con bibliografia). 84 Schramm 1955, tav. 59, fig. 73a-b: dal Reno presso Mainz (nell’Altertumsmuseum der Stadt di Mainz). La tipologia di queste lance è fedelmente riprodotta nella scena di crocifissione sulla porta bronzea di Bernward della cattedrale di Hildesheim (inizi XI secolo): ibid., tav. 59, fig. 73c. Per lance “ad alette” corte e rigorosamente orizzontali dalla Saona, vd. Bailly 1990, 163-167, Cat. nrr. 202-209. Su questo documento vd. nota 334. Magistra Barbaritas, 607, fig. 516, Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, cod. Clm 10291, f. 177r., del XVI secolo. 87 Per il Vergilius Romanus il confronto è con una lancia che spunta al centro del gruppo dei Troiani che occupa la parte destra della scena. Nell’edizione di Ehrle 1902, pictura XVII, la foto in b/n non consente di individuare questo particolare che è invece visibile nelle foto a colori di Wikipedia, v. Vergilius Romanus. Su questo documento vd. da ultimo Brenk 2005a che discute dell’originalità del suo apparato di illustrazioni, fornendo una bibliografia dei più rilevanti contributi sul tema. Per il mosaico di Santa Maria Maggiore vd. Volbach - Hirmer 1958, 84-85, Cat. nr. 129. 88 Grodecki et alii 1974, 276, fig. 277. 32. - Mainz, Altertumsmuseum der Stadt, dal Reno. Punte di lancia dette “Flügellanzen”. Prima età carolingia (da Schramm 1955, tav. 59, fig. 73a-b). 85 86 45 Clementina Panella classica (“tardo-romana”) 89 documentata nelle necropoli longobarde italiane dal tardo VI secolo, ma che nella forma ancora più slanciata è ben attestata soprattutto nel VII secolo. Gli esemplari del Palatino sono da datare, come vedremo, al più tardi agli inizi del IV secolo, e costituiscono pertanto una novità sia sul piano morfologico che cronologico. Essi ripropongono gli stessi problemi che abbiamo visto per due punte di lancia in ferro, con le quali condividono la presenza delle alette ai lati della cannula, fuse insieme ad essa, ma dalle quali si differenziano sia per la lunghezza e la forma della lama, che, benché difficilmente ricostruibile a causa dello stato di deterioramento del ferro, è molto più stretta e sottile, sia per la lunghezza e la forma della cannula, che oltre ad essere di materiale più pregiato (oricalco), ha sezione esagonale e termina, su ogni lato della sommità con un calice di foglie assai stilizzato. È un dato di fatto che, facendo parte dello stesso corredo, entrambi i tipi siano contemporanei e svolgono con una certa probabilità analoga funzione. Comunque le due punte con cannula in oricalco sono quelle più vicine, proprio per le caratteristiche enunciate, agli esemplari delle tombe germaniche della fine del IV e del V secolo, di cui sembrano costituire un prototipo. Per l’origine si potrebbe pensare ad una lancia presente nell’armamento imperiale almeno già in quest’epoca, in seguito assunta dal mondo germanico come emblema di rango, oppure ad una lancia germanica entrata a far parte del repertorio dell’armamento romano. Che l’esercito romano abbia adottato in alcuni casi armi ed insegne “barbariche”, è provato per le prime dal gladio spagnolo, dallo scudo gallico, dall’arco siriano, dalla corazza greca 90, e per le seconde dai persici dracones (SHA, Aurel. 28, 5; una descrizione in Amm., 16, 10, 7), affer- matisi in seguito ai contatti con le armate dei Sarmati, dei Daci, e dei Parti nel II secolo (sulla Colonna Traiana 20 sono le rappresentazioni di dracones, ma ancora nelle mani dei nemici), destinati ad avere una straordinaria fortuna nel III secolo (vd. la presenza di questa insegna sulla fronte e su uno dei lati corti del sarcofago di Portonaccio del 180-190 d.C. 91, accoppiati a vessilli quadrati, e su uno dei pannelli dell’Arco di Settimio Severo al Foro Romano, che celebra la vittoria nelle guerre partiche 92, ove il draco fluttua al di sopra di uno stendardo a tre punte [img. 66], e la loro menzione nella cerimonia per i decennali di Gallieno: SHA, Gall. 8, 6) 93. Nel IV secolo rappresenteranno il signum militare delle coorti 94 (vd. i dracones che sovrastano i soldati nel rilievo con la battaglia di Ponte Milvio del 312 d.C. sul fianco Sud dell’Arco di Costantino a Roma 95, o quelli affiancati a vessilli quadrati su una scena di adlocutio nell’Arco di Galerio a Tessalonica che celebra la vittoria sui Sassanidi del 297-298 d.C. 96). Ritornando alle nostre lance, si ricorda che i Germani erano diventati influenti all’interno dell’Impero già nel III secolo (con diffuso interscambio di oggetti e compenetrazione di costumi soprattutto con le popolazioni poste al di qua e al di là dei confini), ma anche prima di questo secolo avevano goduto in qualità di “clienti”, “federati”, dediticii (cioè di popolazioni sconfitte e arresesi a discrezione) di larghe preferenze nel reclutamento delle guardie del corpo dei principali personaggi politici di età tardo-repubblicana, o nel reclutamento dei reparti mercenari, e in seguito nel reclutamento delle coorti ausiliarie 97. Gli esemplari del Palatino consentono in ogni caso di rialzare notevolmente, rispetto alla data denunciata dai ritrovamenti (o dalla fonte: Sidonio), la cronologia del tipo 98. A queste due lance in via di ipotesi Marco Ricci ha L. Paroli, in Arena - Paroli 1994, 53. Utili riflessioni su questo tema in Vallet - Kazanski 1993; vd. anche Dufrenne 1973, 57, n. 1, con ulteriore esemplificazione. 91 Musso 1985; una scheda recente con bibliografia è in Roma e i Barbari, 170-171 (Y. Rivière). 92 La titolatura riporta al 202-203 d.C.; reintervento sull’iscrizione dopo la damnatio di Geta nel 211 d.C. 93 Per le fonti letterarie si rimanda a A.J. Reinach, in Dict. Ant. IV.2, v. Signa militaria, 1321; A. Fiebiger, in RE V, cc.1633-1634 (fonti); Lebedynsky 2001, 203-206; per i pochi esemplari restituiti dagli scavi vd. Feugère 1993, 57-58. Le lance, alle quali erano applicati i dracones, sono aste del tutto simili a quelle su cui erano appesi i vessilli quadrati; la testa del mostro, a cui era collegato il drappo di forma serpentiforme, era in legno o in metallo, così come documenta l’esemplare di Niederbieber (del 260 d.C.) in Germania: Feugère 1993, figg. a p. 58; Le Bohec 2006, fig. 12. Altra documentazione figurata in Coulston 1991. Per la fortuna di questa insegna in età bizantina vd. Babuin 2001, 13-15. 94 Cosi Vegezio, 2, 13 nella prima metà del V secolo: primus signum totius legionis est aquila quam aquilifer portat. Dracones etiam per singulas cohortes a draconariis feruntur ad proelium. 95 De Maria 1988, tav. 98, 1. 96 Pilastro meridionale, lato orientale: Volbach – Hirmer 1958, 53, tav. 2; Boschung 2006, 361-371, fig. 6. Sull’Arco si romanda alla monografia di Laubscher 1975. 97 Cracco Ruggini 1984, 9; sulla barbarizzazione dell’esercito in senso anche germanico a partire dall’età di Marco e di Commodo, ibid., 17-18 e Ead. 2008a, 205, 207 e passim. Sui Germani in Italia e nell’esercito vd. B. e P. Scardigli 1994. 98 Va segnalato a questo proposito che molto materiale, soprattutto rinvenuto in Italia, è inedito e che le datazioni, relativamente a queste età, sono abbastanza “instabili”. 89 90 46 I Segni del Potere Questo ritrovamento per la prima volta restituisce un insieme significativo - sul piano quantitivo e qualitivo – di scettri e lance cerimoniali di età imperiale. Diverse sono le ottiche con le quali abbiamo organizzato il loro studio: sotto l’aspetto materiale (di oggetti in sé, quali essi sono) e sotto l’aspetto simbolico (per quello che rappresentano), utilizzando tutti i tipi di fonti disponibili. Per quanto attiene al primo punto, in assenza di confronti diretti, consistente è stato l’apporto fornito dai docu- menti figurati nell’interpretazione dei manufatti: la sfera in calcedonio o le due sfere in vetro dorato sarebbero state incomprensibili se alla loro ricostruzione non avessero contribuito le iconografie. In modo analogo la documentazione scritta è stata utilizzata anche al fine di risalire dal racconto di eventi agli oggetti e di trovare un’eco degli oggetti nel racconto. Ma essa ha fornito soprattutto gli strumenti per un recupero della materialità degli insignia e dei signa, in quanto funzionali alla gestione del potere, al suo esercizio, alla sua delega, alla sua trasmissione (questo è il percorso seguito da Ignazio Tantillo). Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello simbolico, sono state essenzialmente le raffigurazioni su rilievi, pitture, cammei, argenti, avori e monete che hanno consentito di assegnare ad essi un valore assoluto di “segni”, «assunti da chi ne fa mostra o chi se ne fregia per informare l’“altro” del suo status o delle sue prerogative, in termini quindi di immagini» 102. Ma vediamo ora come hanno risposto questi oggetti al confronto con le altre fonti (testi e figurazioni), e come queste ultime hanno consentito una loro ricostruzione. Piuttosto che distribuire le illustrazioni nel testo abbiamo preferito creare una Galleria di immagini nella quale le opere citate, tutte per altro molto note, sono raccolte in gruppi organici che danno conto della loro specificità, ma anche del loro valore di testimonianza artistica, culturale ed ideologica. Iniziamo dagli scettri 103. Il fatto che nel nostro con- 99 Forse le flammulae nominate da Vegezio nella prima metà V secolo (Mil. 2, 1: quae nunc vexillationes vocantur a velo, quia velis, hoc est flammulis, utuntur). In un altro passo della stessa opera (3, 5) l’autore, passando in rassegna gli stendardi in uso nelle legioni romane distingue le flammulae dalle altre insegne: Muta signa sunt aquilae dracones flammulae tufae pinnae…. Giovanni Lido (De Magistr., ed. A.C. Bandy, On Power, Philadelphia 1983, 16, 24-26) nel VI secolo chiama flammularii i portatori di tessuti scarlatti sulla punta delle lance, facendo derivare il nome dal colore fiammeggiante dei vessilli romani. Sulla storia di questa insegna che, segna il passaggio dagli stendardi verticali di età classica a quelli orizzontali di età medievale, diventando con il tempo sinonimo di “bandiera di battaglia”, vd. Babuin 2001, 19-21 (fonti, iconografie); Dufrenne 1973, 59-60 (con bibliografia). 100 Brilliant 1967, 190 e n. 26, figg. 66, 68, 75a-b; sulla sottomissione di Edessa, identificazione e descrizione, 179-180, 188-195. 101 Sulla derivazione persiana, iranica, asiatica anche di questa insegna, posta all’origine dei gonfaloni medievali (“bannières, gonfanons à banderoles”), si interroga Dufrenne 1973, 57-59, tav. V, fig. 5, che recupera in questa direzione anche la rappresentazione del mese di marzo su un mosaico pavimentale di Argo del secondo quarto del VI secolo (ibid., 55-57, tavv. III-IV, figg. 3-4; Babuin 2001, 48, fig. 19; Ginouvès 1957), ove la particolarità – costituita dal fatto che il panno a due punte è applicato in senso orizzontale alla lancia e non in senso verticale, com’è sullo stendardo di Edessa – mostrerebbe un ulteriore passo verso quella definizione di una tipologia delle insegne estranea alle tradizioni militari romane classiche, destinata ad essere quella più largamente documentata nel mondo alto-medievale occidentale e bizantino. Terminologia, storia e significato delle diverse insegne medievali in Schramm 1955, 643-658. 102 Arslan 2003, 337. Lo stesso percorso in rapporto alla funzione simbolica che il manto di porpora aveva assunto nella rappresentazione e nella ideologia della gestione del potere nel IV secolo in De Bonfils 2002. Sul rapporto tra immagini e comunicazione nel mondo romano si rimanda a Zanker 2005, con ampia bibliografia relativa al tema. 103 S. Dorigny, in Dict. Ant., IV.2, 1115-1119, v. Sceptrum; A. Hug, in RE II, A1, cc. 368-372, v. Sceptrum; sulla documentazione archeologica dell’Etruria e di aree etruschizzate, vd. Delpino 2000 (in part. 224). Per l’età imperiale romana si rimanda ad Alföldi 1935, 3-171 (in part. 110-116); Salomonson 1956; Schäfer 1989, 184-188 (fonti letterarie ed ulteriore bibliografia). Sulle testimonianze figurate vd. Schäfer 1989, 420-424 (Anhang S) e da ultimo Gagetti, 449-463; 585-588, tabb. 4-6. Sugli attributi del principe nell’iconografia monetaria Bastien 1992-1994, 419428, offre, in relazione allo scettro con aquila, allo scettro corto con “estremità arrotondata”, allo “scettro lungo”, il confronto e il conforto della documentazione numismatica da lui raccolta dal I al V secolo insieme ad un ampio repertorio di monumenti figurati e di fonti letterarie. Vd. infine l’Index di Salomonson 1956, assegnato un drappo di forma triangolare, che termina con due o più punte 99, basandosi sulla raffigurazione di uno stendardo a tre punte sulla scena A del pannello II dell’Arco di Settimio Severo nel Foro Romano già menzionato, con la sottomissione del re di Edessa all’imperatore romano (img. 66) 100. I guerrieri Parti che escono dalla città sono preceduti da un draco e da questa insolita insegna (la “bandiera di Edessa”). È questo il più antico ed unico esempio di cui si dispone per uno stendardo “a fiamma”, destinato ad avere grande successo in età bizantina, benché in quest’ambito esso sia normalmente disposto orizzontalmente rispetto all’asta e non verticalmente, com’è in questa prima raffigurazione 101. L’origine orientale, persiana, sembra anche in questo caso molto probabile. Testi letterari e confronti iconografici 47 Clementina Panella testo ve ne siano tre di forma e dimensioni diverse, porta a ritenere che ciascuno di essi possa aver fatto parte di rituali precisi. scettri così piccoli siano esistiti sembra provato da qualche sporadico documento iconografico (img. 5) 108, ma, vista la rarità delle rappresentazioni, sembra trattarsi di un tipo che non ha goduto di grande fortuna. Il piccolo scettro con sfera in vetro verde. Per questo tipo di scettro non abbiamo trovato confronti, se non una generica somiglianza nei due terminali dei braccioli in argento del Tesoro detto di Proiecta dall’Esquilino della seconda metà del IV secolo (img. 6) 104. Se il coronamento costituito da un calice di petali (gigli, fior di loto, palmette, foglie) gode sugli scettri di una vasta gamma di declinazioni nel mondo greco e compare talvolta anche su monete di età repubblicana 105 e imperiale o su cammei sia nelle mani di divinità e di personificazioni (per esempio Giove, img. 2, il Genius Senatus, ma anche imperatori quando riprendono l’iconografia del dio, come Tiberio, img. 3, e Caligola 106), sia come simbolo di regalità straniere, l’eccezionalità del nostro pezzo è nella dimensione dell’impugnatura che corrisponde a quella di una mano. Va detto che abbiamo pensato che il pezzo potesse essere innestato su un’asta, in modo da raggiungere una lunghezza più simile ai confronti (vd. in particolare img. 27) 107, ma l’ipotesi è difficilmente praticabile in quanto il manufatto è troppo pesante per poter essere montato su un sostegno, né sono visibili sulla base a campana, che è accuratamente rifinita, tracce dell’inserimento di un’ulteriore componente. D’altro canto, che Lo scettro ad asta conica e sfera in calcedonio. La sfera in calcedonio dovrebbe appartenere ad uno scettro corto di forma conica, sormontato dal globo 109 e coronato dall’aquila di Giove (Isid., Etymol. 18, 2, 5: super scipionem autem aquila supersedebat, ob indicium quod per victoriam ad supernam magitudinem accederent) 110, identificato solitamente con lo scipio eburneus delle fonti (Liv., 30, 15, 11-12) 111. Tale insegna è riservata all’imperatore e “temporaneamente” ai consoli e ai magistrati preposti ai giochi 112 e compare in età imperiale nelle mani del principe nelle cerimonie civili e religiose. Benché manchino figurazioni certe di età repubblicana, le fonti attestano l’antichità di questo tipo di scettro, ricollegandolo a Tarquinio Prisco (Dion. Hal., III, 61-62, 2) e al culto di Giove Ottimo Massimo istituito da questo re sul Campidoglio (Liv., X, 7, 10). Ed è dal tempio capitolino (e dall’età di Augusto, dal tempio di Marte Ultore: Dio, 55, 10, 3) che lo preleva il comandante vittorioso (immagine animata del dio) in occasione della cerimonia del trionfo insieme alla veste trionfale 113 (privilegio unicamente militare che non oltrepassa la durata della cerimonia) e lì lo ripone alla fine 126-127 sulle diverse declinazioni dello scettro e delle sue terminazioni (con aquila, con busti degli imperatori, come attributo degli dei o di figure allegoriche, etc.) in età repubblicana e imperiale. 104 Shelton 1981 e 1985; Painter 2000, 140-146 e 500-501, Cat. nrr. 122-123, con bibliografia. 105 Fiore o foglie sormontate da una sfera su denarii di età repubblicana illustrati da Salomonson 1956, figg. 24-30; infra, Pardini, figg. 3-4. 106 Giove con scettro nella sinistra e fascio di fulmini nella destra, su un cammeo del Cabinet des Médailles di Parigi: Megow 1987, 208, A87, tav. 28, 1, attribuito ad età claudia (img. 2) e Vollenweider - Avisseau-Broustet 2003, 78-80, Cat. nr. 83, datato in età tiberiana; Tiberio seduto con scettro nella destra, sul Gran Cammeo di Francia con l’apoteosi di Augusto, conservato nel Cabinet des Médailles: Megow1987, 202-207, A85, tavv. 32, 5-10; 33, attribuito ad età claudia; Giard 1998; Vollenweider - Avisseau-Broustet 2003, 219-220, Cat. nr. 275, datato tra il 23 e il 29 d.C. (img. 3); Caligola (?) seduto, su un cammeo del Kunsthistorisches Museum di Vienna: Megow 1987, 185, A60, tavv. 15, 3; 16, 1. In tutti e tre i casi gli scettri sono ad asta lunga (per il coronamento si ricordi lo “spillone” Barberini, vd. supra, n. 55). Sull’immagine teomorfa del sovrano fondamentale il lavoro di Bergmann 1998. 107 Un fiore a sei petali che regge l’aquila inserita in una corona sormontata da una mensola con tre busti è l’elaboratissima terminazione dello scettro di un dittico di Anastasio, console del 517 d.C. (Delbrueck 1929, 127-131, Cat. nr. 20; Volbach - Hirmer 1958, 106, Cat. nr. 220; Weitzmann 1977, 97-98, Cat. nr. 88) (img. 26), ma in questo caso l’asta ha forma e dimensioni consuete degli scettri ad asta conica; da un fiore parte il busto sulla sommità dello scettro di Giustino, console del 540 d.C. (Delbrueck 1929, 151154, Cat. nr. 34; Weitzmann 1977, 51-54, Cat. nr. 51) (img. 27) e di Apion, console del 539 d.C. (Delbrueck 1929, 150-151, Cat. nr. 33); da un calice di foglie o di fiore sorge anche il busto sullo scettro di Clementino, console del 513 d.C, raffigurato su un dittico del Museo di Liverpool (Delbrueck 1929, 117-121, Cat. nr. 16; Weitzmann 1977, 48-49, Cat. nr. 48; Aurea Roma, 447-448, Cat. nr. 34). 108 Su un aureo del 134-138 d.C. della zecca di Roma Adriano sembra reggere con la sinistra un oggetto che potrebbe ricordare il nostro pezzo: RIC II, 367, nr. 232, tav. XIII, 269. 109 Sul globo terrestre e/o la sfera celeste come simbolo del potere universale, vd. Arnaud 1984, 53-116 (in part. 54-55, bibliografia); Bastien 1992-1994, 491-510. 110 Su tale tipo di scettro vd. Bastien, 1992-1994, 421-424. 111 Gli autori antichi parlano indifferentemente di scipio, scipio eburneus, sceptrum. L’identificazione dello scipio eburneus, attributo dell’imperatore, dei consoli e dei magistrati preposti ai ludi, con lo scettro corto di forma conica coronato da una sfera sormontata dall’aquila è possibile solo attraverso le iconografie. 112 CIL X, 1709; Cassiod., Var. 6,1, 6; Claud., Paneg. de VI cons. Hon., 643; altre fonti in Delbrueck 1929, 62. 113 Beard 2007, 225 ss.; La Rocca 2008, 47-48. 48 I Segni del Potere dell’evento 114. In una data imprecisata della prima età imperiale 115, che si tende a collocare in età traianea, il console porterà la tenuta del trionfatore (toga picta, tunica palmata, calcei aurati, corona e scettro: Prudent., Peristephan. 10, 146; Claud., Prob. et Olybr. 205; CIL X, 1709: consulatus cuncta habere insignia permisit sellam curulem, scipionem, purpuram; SHA, Aurel. 5, 13: te consulem hodie designo, scripturus ad senatum, ut tibi deputet scipionem, etiam fasces…). In tal modo gli emblemi del trionfo e quelli dell’inaugurazione del consolato si confonderanno. E la stessa tenuta sarà adottata in occasione delle pompae circenses (Juv., 4, 10, 36-43). Gli attributi sarebbero poi passati anche ai pretori nella loro funzione di supervisori di tutti i giochi pubblici, funzione che diventa preminente dal 22 a.C. 116. Ma lo scettro con aquila è da Augusto in poi anche simbolo del potere imperiale e non soltanto un attributo trionfale o consolare 117 e compare nelle mani del sovrano in una serie ininterrotta di documenti figurati e, ossessivamente, sulle monete 118. È portato già da Augusto sul cammeo incastonato nel IX secolo nella Croce di Lotario, oggi nella Domschatz di Aachen (img. 7) 119, da Tiberio su una tazza d’argento del Tesoro di Boscoreale al Museo del Louvre, con raffigurazione del corteo trionfale forse in relazione con il trionfo sui Germani dell’8-7 a.C. (img. 8) 120, da Claudio sul cammeo del Museo Nazionale di Chieti (img. 9) 121 e su quello del Kunsthistorisches Museum di Vienna (img. 10, qui l’aquila è scomparsa per una rilavorazione del pezzo) 122, da Tito su un cammeo della Collezione Medicea a Firenze (img. 11) 123 e poi da Antonino Pio nella base della Colonna conservata nel Cortile della Pigna in Vaticano del 161-162 d.C. (img. 12) 124. Sulle monete l’attributo si associa a raffigurazioni dell’imperatore su quadriga (sesterzio di Alessandro Severo, img. 13) 125; sui busti monetali esso compare con Alessandro Severo e caratterizza i conî di tutto il III e il IV secolo in associazione con l’abito civile o consolare (imgg. 14-15) 126 (tra le eccezioni un tetradrammo di Caracalla emesso ad Aradus nel 217-218 d.C. sul quale il principe indossa corazza e paludamentum) 127. È attestato per l’ultima volta nella monetazione dell’impero d’Occidente su alcuni solidi di Onorio emessi nel 422 d.C. 128, sostituito dallo scettro cruciforme 129. Continua tuttavia ad essere ancora rappresentato su alcuni dittici consolari 130 del tardo V e del VI 114 Sugli aspetti giuridici e procedurali del trionfo dall’età repubblicana a Costantino si rimanda alla sintesi di Maiuro 2008 e all’ampia bibliografia del volume dedicato ai Trionfi Romani; sulla “forma” del trionfo, sugli aspetti della pompa, sul suo percorso e relative trasformazioni nel tempo, testi antichi e riflessioni in La Rocca 2008; tra i lavori più recenti Beard 2007 e per l’età repubblicana Bastien 2007 con aggiornata rassegna del dibattito relativo al significato di questa cerimonia e alle sue origini. Sul rapporto fra trionfo e funerali vd. Torelli 2008. 115 Dopo Traiano: R. Cagnat, in Dict. Ant. V, 491, v. Triumphus; Salomonson 1956, 27, 47, nn. 89-91, 63 e passim. 116 Salomonson 1956, 34: «Just as the triumphal ornamenta of the processus consularis developed into consular symbol […], the attributes carried by the praetor as leader of the equally magnificent pompa circensis may gradually have come to be his charaterisctic marks of honour»; più estesamente il tema dei ludi viene trattato alle pp. 53-61. 117 Simbolo della carica consolare ricoperta dall’imperatore, accessorio dell’abito civile per Alföldi 1935, 110-112. 118 Infra, Pardini, figg. 19-73. 119 Megow 1987, 155, A9, tavv. 2, 2 e 5. 120 Héron de Villefosse 1899, tavv. 35-36; Kuttner 1995, 143154. 121 Megow 1987, 190, A68, tav. 21, 1. 122 Megow 1987, 196-199, A78, tavv. 21, 2-4 e 22, 1. 123 Giuliano 1989, 246-247, Cat. nr. 178. 124 Vogel 1973, figg. 9-17. 125 RIC IV.2, 110, nr. 495, tav. 8, 5. Altri confronti in Pardini, infra, figg. 19-45. 126 Antoniniano di Massimiano della zecca di Roma del 293298: RIC V.2, 278, nr. 511 (img. 14); nummus di Massenzio, co- niato a Ticinum nel 308-309/10 d.C.: RIC VI, 295, nr. 103 (img. 15). Ulteriore esemplificazione in Pardini, infra, figg. 46-66. 127 Bastien 1992-1994, 423, tav. 84, 4. Tra le altre rare monete sulle quali l’imperatore è in abito militare vd. un nummus di Costantino I, coniato a Londinium nel 310-312 d.C.: RIC VI, 136, nr. 178. 128 RIC X, 333, nr. 1330, tav. 41; Bastien 1992-1994, 421-424, tav. 219, 3. Infra, Pardini, fig. 62. 129 Su quest’ultimo Bastien 1992-1994, 428-432; 430, figg. 16; per le attestazioni nell’Oriente bizantino vd. Pertusi 1976, 503504, tav. I, figg. 1-2. 130 Sui dittici prodotti in Oriente e in Occidente tra la tarda antichità e l’XI secolo si rimanda agli interventi contenuti in David 2007, che danno conto dell’ampia bibliografia che si è sviluppata intorno a questi oggetti (documentaria, attribuzionistica, cronologica, iconografica, storico-sociale) e ai risultati degli studi più recenti. Il nostro interesse è rivolto ai dittici consolari in avorio (vd. Olovsdotter 2005; Ravegnani 2006) utilizzati dal III secolo per celebrare le elezioni dei consoli, i quali ne facevano dono in occasione della nomina o in occasione di eventi collegati al loro ufficio. La fioritura della produzione interessa soprattutto il V e la prima metà del VI secolo e termina con l’abolizione di fatto del consolato ordinario in età giustinianea (Procop., HA 26, 12-15; Cameron Schauer 1982, 137 ss.; in realtà la carica fu soppressa nel 642: ibid. 142). Giustino è l’ultimo console (540 d.C.) a cui è possibile attribuire un dittico (vd. img. 27), a meno che non spetti al 541 il discusso dittico di Basilio (Cameron - Schauer 1982; David 2007, 27) generalmente datato al 480 d.C. (Delbrueck 1929, 100, Cat. nr. 6; Volbach 19522, 31, nr. 5, tav. 3; Weitzmann 1977, 47, Cat. nr. 47). Su questo esemplare il personaggio regge uno scettro con la terminazione a croce, che trova confronto solo su due o tre dittici anonimi (Volbach 19522, nrr. 41, 43 e forse 40), introducendo un 49 Clementina Panella secolo (di Boethius, console del 487 d.C. e di Magnus, console del 518 d.C.) (imgg. 16-17) 131 e su emissioni monetali dell’impero d’Oriente per tutto il VI (Giustino II, Tiberio II, Maurizio) e la prima metà del VII secolo (Foca, Eraclio), benché la carica consolare fosse stata di fatto abolita già da Giustiniano (vd. n. 130). Poi, dopo un intervallo di circa un secolo, ricompare ancora con Filippico Bardane, eclissandosi definitivamente con tale imperatore (711-713 d.C.), ma in quest’ultimo caso l’insegna appare “cristianizzata” dal momento che l’aquila è sormontata dalla croce 132. Se quella di Filippico è l’ultima rappresentazione sui busti monetali dell’antica insegna dei trionfatori, chiude la serie della nostra ricognizione il lungo scettro con aquila tenuto da Ottone III circondato da alti dignitari su una miniatura su pergamena della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco della fine del X secolo (img. 18) 133. Va segnalato che un altro tipo di scettro corto, sormontato da uno, da due o da tre busti (innestati direttamente sull’asta o su tipi di coronamento più complessi: aquila, sfera, corona, calici di foglie) 134, è documentato sulle monete come insegna di Tito trionfante su quadriga del 72 d.C. 135 (img. 19) e di Domiziano del 73 d.C. (img. 20) 136 non ancora imperatori (in quanto principes iuventutis? 137), nelle emissioni dei sovrani del Bosforo (Kyotis I, Rheskuporis II e Sauromates I) che avevano ricevuto da Roma tra età claudia e età adrianea amplissima munera 138, nel frammento A dei rilievi flavi scoperti sotto il Palazzo della Cancelleria di Roma, nelle mani del Genius Senatus (img. 21) 139 e, a secoli di distanza, nella scena di sacrificio sulla Base dei Decennali del 303 d.C. nel Foro Romano nelle mani dello stesso Genius 140, nonché in quelle dei consoli non imperatori (scettri con busto su un rilievo funerario della Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen, acquistato a Roma, ora datato ad età adrianea 141 e sul rilievo della tomba di M. Antonius Antius Lupus sulla via Ostiense del 192 d.C. 142), di viri consulares (statue di magistrati di Efeso con scettri fortemente danneggiati 143) e di pretori nella loro funzione di praesides ludorum (si vedano i rilievi di Foligno e del Vaticano con corsa di carri nel circo alla presenza sul tribunal del magistrato preposto ai giochi con tale tipo di scettro 144). Se si scorre poi l’elenco delle testimonianze figurate di scettri con aquila raccolte da Th. Schäfer e da E. Gagetti 145 si nota che, ad eccezione di alcuni (pochi) rilievi del II secolo spettanti a consoli (tomba rupestre di Palazzolo 146, monumento funerario di Monte Cavo sui Colli Albani 147 e forse monumento di Filopappo ad Atene 148) e, dopo un’eclisse di alcuni secoli, di altrettanto pochi dittici della fine del V e del VI motivo cristiano all’interno dell’iconografia degli scettri sui dittici consolari. La fine della magistratura tuttavia non fermò la fabbricazioni di questi manufatti, utilizzati anche prima del VI secolo e, a partire da questa data specificamente, per raccogliere testi sacri, con figurazioni perciò di carattere religioso. 131 Delbrueck 1929, 103-106, Cat. nr. 7, e 137-139; Cat. nr. 22, tav. 22R. 132 Infra, Pardini, 90, fig. 66; Pertusi 1976, 503 (bibliografia delle monete a n. 51). 133 Reichenau, Vangeli di Ottone III: Grodecki et alii 1974, 91, fig. 81. 134 Sugli scettri con busti un elenco è in Gagetti 2006, 454463, 586-587, tabb. 5-6 (quarantacinque sono le testimonianze figurate con coronamento in forma di busto qui registrate contro diciassette raffigurazioni di scettri con coronamento con aquila; ma per queste ultime manca la documentazione numismatica); vd. anche Schäfer 1989, 185-188; 422-424; Alföldi 1935, 116-117; Salomonson 1956, 31-41; 96-102, figg. 16, 1923; Bastien 1992-1994, 422-423 con ulteriore esemplificazione. 135 BMCRE II, 145, n. 650, tav. 26,1 = RIC II, 88, nrr. 629 (a) e (b), tav. II, 35 = RIC II.12, 91, nr. 476, tav. 36; Bastien 19921994, tav. 33, 7. 136 Aurei e denarii del 73 d.C.: BMCRE II, 23-24, nrr. 121-131, tav. 3, 14-18 = RIC II, 41, nrr. 232 e 232a, tav. I.5 = RIC II.12, 97, nrr. 538-541, tav. 4. 137 Alföldi 1935, 116-117. 138 Salomonson 1956, fig. 16; Gagetti 2006, 455, tav. LXXIII, 7 (nn. 51-55 per la bibliografia delle monete); Ead., 455-456, n. 49 per le fonti sui donativi concessi da Roma a re o principi di stati confinanti per garantire e sancire alleanze: in Occidente Siface nel 210 a.C., Massinissa nel 203 e nel 200 a.C., Ariovisto nel 58 a.C., Giuba II nel 25 a.C., Tolomeo di Mauretania nel 24 d.C; in Oriente Eumene II nel 172 a.C., i tre sovrani di Cappadocia (Ariarate V nel 160 a.C., Archelao nell’86 a.C. e Ariobarzane II nel 62 a.C.), Antioco V di Commagene nel 59 a.C. Sull’investitura dei capi delle tribù africane da parte dei Romani vd. Rebuffat 1995. 139 Magi 1945, 22, 116-127, fig. 3; Fehr 1998; per la datazione delle diverse rilavorazioni subite dai due rilievi della Cancelleria vd. ora le ipotesi di Herzog 2001. 140 Ormai quasi illeggibile: L’Orange 1938, fig. 3, 6; particolare in Popović 2000, 242, fig. 4. 141 Salomonson 1956, 9-11, passim, fig. 1 (datato in età severiana); Schäfer 1989, 258-260, nr. 13, tav. 35, 3 (datato in età adrianea). 14 Schäfer 1989, 272-280, nr. 19, tavv. 40-43. 143 Kollwitz 1941, 85-88, nrr. 7-9, 11, tavv. 24-25, 27-28, 3132; Gagetti 2006, tav. LXXVI, 1. 144 Salomonson 1956, figg. 21-22. 145 Gagetti 2006, 451-454, 585, tab. 4. 146 Schäfer 1989, 265-272, nr. 18, tavv. 38-39. 147 Noto da un disegno di G. Piranesi: Salomonson 1956, 1920, passim, fig. 13. 148 Kleiner 1983, datato al 114-116 d.C. Sul rilievo, a causa dello stato di conservazione, è assai difficile riconoscere l’aquila in cima allo scettro. 50 I Segni del Potere secolo (come quelli già citati dei consoli Boethius e Magnus), lo scettro con aquila è rappresentato solo nelle mani dell’imperatore. Su molti altri documenti consoli e magistrati hanno scettri con terminazione a forma di uno o più busti, identificati solitamente con immagini dei principi regnanti o di divinità 149. Così sono quelli rappresentati nelle mani dei defunti su un sarcofago del Camposanto di Pisa della prima metà del III secolo e su un sarcofago di Villa Doria Pamphilj a Roma della prima metà del IV secolo 150, o lo scettro tenuto da un magistrato sul dittico dei Lampadii degli inizi del V secolo (img. 22) 151; così è lo scettro con sfera sormontata da due busti sul dittico di Costanzo III (?) datato al 417 d.C. 152, sul dittico di Flavio Felice, console del 428 d.C. (img. 23) 153 e sul Missorio di Flavius Ardabur Aspar, console del 434 d.C. (img. 24) 154, o l’elaboratissimo scettro impugnato da Areobindo, console del 506 d.C. sul dittico dell’Hôtel di Cluny a Parigi che termina con la rappresentazione a figura intera dell’imperatore con globo e scettro corto (img. 25) 155. Un solo busto è sulla sfera dello scettro tenuto da Oreste, console del 530-533 d.C sul dittico omonimo 156; sfera, calice di foglie e busto togato anche sullo scettro portato da Giustino in uno degli ultimi dittici consolari prodotti (540 d.C.) (img. 27) 157. Tre busti sono infine documentati sullo scettro tenuto da Anastasio per il suo consolato del 517 d.C. (img. 26) (vd. n. 107). Una testa glareata identificata con la dea Roma compare infine sugli scettri nelle mani di Gallo Cesare e Costanzo II nella copia delle illustrazioni del Cronografo del 354 del Barb. Lat. 2154, f. 13 nella Biblioteca Vaticana (img. 28) 158. La figurazione si inverte su un aureo di Adriano della zecca Lo scettro a due sfere. Per lo scettro coronato da una sfera su entrambe le estremità, corto o lungo (tra i nostri materiali le due sfere in vetro dorato sono troppo simili per non appartenere ad un medesimo oggetto presumibilmente corto), la documentazione è abbastanza consistente, benché non sempre le figurazioni consentano di verificare la presenza della sfera su entrambi i lati dell’asta. Esse tuttavia sono in alcuni casi ipotizzabili, com’è per lo scettro lungo tenuto da Tiberio su carro nella Gemma Augustea del Kunsthistorisches Museum di Vienna posteriore al 10 d.C. (img. 30) 160, per quello (corto?) impugnato da Faustina sulla base della Colonna di Antonino Pio in Vaticano già citata (vd. img. 12), per lo scettro corto tenuto da Costanzo II nel Cammeo detto di Onorio e Maria della Collezione Rothschild del Museo del Louvre (img. 38) 161, per quello (lungo) impugnato da Onorio sul dittico di Anicio Petronio Probo, console del 406 d.C., nel Museo del Tesoro della Cattedrale di Aosta (img. 39) 162, per lo scettro (lungo) che compare nella destra del co-imperatore (identificato solitamente con Valentiniano II) seduto alla destra di Teodosio I nell’altrettanto famoso Missorio detto “Disco di Teodosio” della Real Academia de la Historia di Madrid, datato al 388 (o al 393 d.C.) (img. 37) 163. Va notato che questo attributo compare frequentemente nelle raffigurazioni degli imperatori (Augusto nel Gran Cammeo di Francia, già menzionato, vd. img. 3) e in alcuni casi delle imperatrici (la già citata Faustina, Ariadne o Amalasunta 149 Salomonson 1956, 96 ss. ha analizzato la genesi e il significato dello scettro con busti imperiali, un tipo di coronamento introdotto – secondo questo autore – dai principi della dinastia flavia. L’identificazione poi dei personaggi raffigurati è quasi per ogni pezzo oggetto di discussione. Per l’attribuzione a questo tipo di scettri di alcuni busti in pietra dura studiati da E. Gagetti o in argento, vd. supra e n. 56. 150 Arias - Cristiani - Gabba 1977, 123-125, tav. 63; Calza Bonanno - Messineo 1977, 256-257, nr. 316, tav. 168. 151 Brescia, Museo di Santa Giulia: Delbrueck 1929, 218-221, Cat. nr. 56; Aurea Roma, 445-446, Cat. nr. 33. 152 Cattedrale di Halberstadt: Delbrueck 1929, 87-93, Cat. nr. 2; Cameron 1998. 153 Delbrueck 1929, 93-95, Cat. nr. 3; Volbach - Hirmer 1958, 76, Cat. nr. 96. 154 Parigi, Cabinet des Médailles: Delbrueck 1929, 154-156, Cat. nr. 35; Volbach - Hirmer 1958, 79-80, Cat. nr. 109. 155 Delbrueck 1929, 112-113, Cat. nr. 11; Roma e i Barbari, 211, Cat. II.16. Sei sono i dittici ricondotti da Delbrueck 1929, Cat. nrr. 9-15 a questo personaggio, tre quelli attribuiti ad Anastasio: Delbrueck 1929, Cat. nr.19-21. 156 Londra, Victoria and Albert Museum: Delbrueck 1929, 148150, Cat. nr. 32; Magistra Babaritas, 640, fig. 539. 157 Delbrueck 1929, 151-154, Cat. nr. 34, tav. 34. 158 Stern 1953, 164-166, tavv. XIV-XV; Aurea Roma, 574-575, Cat. nr. 257 (con bibliografia). 159 RIC II, 370, nr. 263A, tav. XIV, 279. 160 Megow 1987, 155-163, A10, tavv. 3; 4; 5, 1-4, 6-7; 6, 2-3, 5-6. 161 Volbach - Hirmer 1958, 69, Cat. nr. 59: Onorio, 398 d.C.; Arbeiter 2008, 42 e n. 5: Costanzo II, 335 d.C. 162 Delbrueck 1929, 84-87, Cat. nr. 1; vd. Cracco Ruggini 2008b, 621-622 (con bibliografia). 163 Delbrueck 1929, 235-242, Cat. nr. 62; Pirzio Biroli Stefanelli 1991, 308, Cat. nr. 196; per analisi e bibliografia di questo straordinario pezzo di argenteria vd. l’edizione – dopo il restauro del 1999 – di Almagro-Gorbea et alii 2000. di Roma del 134-138 d.C., ove è Roma Aeterna che regge con la sinistra uno scettro coronato da un busto (img. 29) 159. 51 Clementina Panella sul dittico del Museo del Bargello di Firenze datato al 500 circa: img. 40) 164, ma mai in quelle dei consoli o di alti dignitari, personaggi il cui attributo è specificamente, come abbiamo già notato, lo scettro corto coronato da busti e, più raramente, da aquila. Va detto anche che lo scettro lungo (con estremità arrotondata o sormontata da un fiore, da una palmetta, vd. supra) è uno degli attributi di Giove seduto o stante (vd. imgg. 1, 2) 165 e di altre divinità o personificazioni (Giano, Pax, dea Roma) 166. L’iconografia del dio viene ripresa dagli imperatori, da Augusto 167 a Licinio ed oltre, laddove lo scettro trasferisce loro il potere divino (tale è il significato dello scettro che l’aquila di Giove porge ad Adriano in toga su alcuni sesterzi e dupondii del 119121 d.C.: img. 4) 168. In ambito numismatico è difficile trovare confronti per scettri che abbiano su entrambe le estremità una sfera, in quanto lo spazio dei conî è troppo piccolo per consentire di cogliere particolari così minuti, mentre i busti mostrano unicamente la sommità dell’attributo. Tuttavia esistono alcuni riscontri inequivocabili: un aureo di Domiziano dell’88 d.C. sulla quadriga trionfale (img. 31) 169, un aureo di Eliogabalo del 220 d.C. raffigurato come Iuppiter 170, un aureo di Probo a cavallo in abiti militari preceduto da Vittoria 171 e un antoniniano di questo stesso imperatore sempre a cavallo, ma con barbaro (img. 33) 172, due medaglioni di Massenzio della zecca di Roma del 307-312 d.C, stante in abito consolare con globo e scettro corto, da solo 173 e davanti alla dea Roma seduta (img. 34) 174, e così via fino ad un aureo di Costantino in abito consolare e scettro corto della zecca di Antiochia del 311-313 d.C. (img. 35) 175 e ad un medaglione di Costanzo II del 347-355 d.C., con i due Augusti in toga e mantello, stanti, con globo e scettro corto (img. 36) 176. Variano la lunghezza degli scettri, l’attitudine e gli abiti (sia civili che militari) dell’imperatore. L’attributo (scettro lungo) compare nelle mani di Roma nel dittico di Clementino, console del 513 d.C., del Museo di Liverpool 177, e nel già citato dittico di Oreste, dell’arcangelo Michele sia sul dittico del British Museum di Londra, di datazione controversa (IV o V o primo quarto del VI secolo) (img. 41) 178, che in uno dei pannelli dello schienale in avorio della Cattedra di Massimiano, vescovo in carica a Ravenna tra il 546 e il 556 d.C., nel Museo Arcivescovile di Ravenna, con rappresentazione della Vergine con bambino in trono 179, e infine, per citare esempi ancora più tardi, dell’arcangelo Gabriele su una tavoletta di avorio con scena di Annunciazione di datazione anch’essa assai discussa (fine del VII-inizi VIII secolo?) nelle Civiche Raccolte d’Arte del Castello Sforzesco di Milano 180, e di un angelo stante tra Pietro e Marco seduti, su una placca di avorio del Victoria and Albert Museum di Londra datata all’XI secolo 181. In particolare lo scettro corto (indipendentemente dalle terminazioni con una sola sfera o con una sfera su entrambe le estremità) non sembra avere un significato diverso da quello con aquila (nella scena di apoteosi 164 Delbrueck 1929, 201-205, Cat. nr. 51. Per i ritratti attribuiti all’imperatrice e per il dittico di Vienna che raffigura quasi certamente lo stesso personaggio, ma seduto e con globo crucigero nella sinistra, vd. Delbrueck 1929, 205-208, Cat. nr. 52; Aurea Roma, 267-272, Cat. nrr. 268-271, con bibliografia. Sul ruolo giocato dalle donne nella corte imperiale dall’età costantiniana (vere e proprie imperatrici, anche a livello dell’assunzione dei simboli di potere) vd. Arce 2007, 25-26. 165 Vd. tra le tante rappresentazioni monetali RIC II, 369, nr. 251, tav. XIII, 275. 166 Infra, Pardini, figg. 76-104. 167 Aureo di Augusto: BMCRE I, 64, nr. 362, tav. 7, 14. Vd. anche Bastien 1992-1994, 426. 168 RIC II, 415, nr. 589(b); BMCRE III, 417, nr. 1203, tav. 79, 3; 421, nr. 1236, tav. 79, 12; Alföldi 1935, 114, tav. 5, 4-5; Bastien 1992-1994, 426, tavv. 55, 4 e 54, 9. 169 RIC II, 169, nr. 128 = RIC II.12, 303, nr. 561, tav. 127 (datato all’88 d.C.). 170 RIC IV.2, 30, nr. 33 (5c); infra, Pardini, fig. 108. 171 RIC V.2, 78, nr. 582 (zecca di Siscia, 276-285 d.C.); infra, Pardini, fig. 148. 172 RIC V, 85, nr. 632, tav. III, 13: l’imperatore sul dritto impugna uno scettro con aquila: due diverse coniugazioni del potere? RIC VI, 372, nr. 167. RIC VI, 373, nr. 173. 175 RIC VI, 641, nr. 156b = RIC VII, 613, nr. 5. 176 RIC VIII, 517, nr. 75, tav. 26: al dritto busto di Costanzo II con globo e scipio; la moneta che presentiamo costituisce una variante rispetto a RIC, ove sul dritto l’imperatore non regge lo scettro. 177 Delbrueck 1929, 117-121, Cat. nr. 16; Aurea Roma, 447448, Cat. nr. 34 (con bibliografia). La personificazione di Costantinopoli sul lato opposto impugna un bastone ricurvo a cui è applicata una bandiera. Il console a sua volta tiene nella sinistra uno scettro corto coronato da un calice da cui spunta un piccolo busto (vd. n. 107). 178 Volbach 19522, Cat. nr. 48; Grabar 1980, 280, fig. 321; infra, Ricci, 196. 179 Bovini 1957; Volbach - Hirmer 1958, 107-108, tav. 231; Volbach 1977, 35-51, fig. 50; per la datazione Farioli Campanati 2005; Roma e i Barbari, 408-409, 629 (con bibliografia). 180 Aurea Roma, 590, Cat. nr. 284 (con bibliografia e sintesi del dibattito sulla cronologia e sulla provenienza). 181 Volbach 19522, 36, Cat. nr. 18, tav. 8 (visibile solo un’estremità dello scettro lungo); ottima la riproduzione in Kenchreai VI, tav. VI, 3. 52 173 174 I Segni del Potere Le hastae/scettro. Anche le quattro lance, tre con punte a sei lame ed una a lama semplice, appartengono alla categoria degli oggetti da cerimonia, sia per la loro forma (il calice di petali o foglie su cui si innestano le lame), sia per la scarsa durezza del ferro con cui sono state realizzate 185. Queste caratteristiche non si adattano ad un uso offensivo ma suggeriscono una funzione decorativa. D’altro canto se la hasta è certamente un’arma, è anche, in quanto antico simbolo del dio della guerra (di Marte, di Quirino), nelle tradizioni e nella giurisdizione di Roma, un attributo religioso (si ricordino le hastae Martiae conservate insieme agli ancilia nel sacrarium della reggia), un emblema del comando e della sovranità 186 e funge talvolta da vero e proprio scettro. I termini sono per altro intercambiabili a seconda delle culture: per ea tempora adhunc reges hastas pro diademata habebant, quas Graeci ‘sceptra’ dixere (Justin., Ep. Trogi Pompei, 43, 3, 3), così come a Roma la hasta e lo scettro sono rappresentati indifferentemente sullo stesso tipo di busto imperiale 187. Come per le altre insegne, anche la lancia si afferma come segno distintivo del potere (militare e non) all’inizio dell’età imperiale (vd., tra i tanti documenti, Marco Aurelio nella scena XXV sulla colonna a lui dedicata 188, img. 42, o il sovrano su quadriga, sul Cammeo detto del Trionfo di Licinio, img. 103 189). Sulle monete l’imperatore hastatus attraversa tutti e cinque secoli dell’impero d’Occidente, da Ottaviano non ancora Augusto 190 ad Antemio e Giulio Nepote 191, e, nell’impero di Oriente, da Costantino a Giustiniano 192. Va tuttavia ricordato che, come il vexillum, la hasta è anche un donum militare (hasta donatica, denominata hasta pura) 193, riservata in età imperiale agli alti ufficiali secondo una precisa gerarchia 194. Gli ultimi a ricevere come donativi vexilla e hastae purae sono Aureliano e Probo (SHA, Aurel. 13, 24; SHA, Probus 5, 1-3), ma in questi due casi gli scrittori dell’Historia Augusta potrebbero aver attualizzato comportamenti e cerimonie del passato, dal momento che documentazione letteraria, epigrafica e figurativa relativa a tali dona diminuisce drasticamente a partire dall’età severiana, parallelamente alla sostituzione di molte 182 Documentazione in Bastien 1992-1994, 427. Secondo questo autore è possibile distinguere lo scettro corto dal quello lungo nei busti monetali per il fatto quest’ultimo è normalmente appoggiato sulla spalla del principe. 183 Bastien 1992-1994, 425, tav. 203, 6 = RIC VIII, 530, nr. 204, tav. 27; infra, Pardini, fig. 72. 184 Per le diverse declinazioni dello scettro lungo coronato da una sfera (“bastone con pomo”) sulla monetazione di Bisanzio dal V al XII secolo vd. Pertusi 1976, 504-507 e passim. 185 Vd. infra, Ricci, 191. 186 Fest., 55, 9-10 Linds. (hasta summa armorum et imperii est); Id. 90, 19 Linds. (signum praecipuum est). Sulla lancia come simbolo di sovranità non si può che rimandare allo studio di Alföldi 1959 e al suo apparato di fonti letterarie e numismatiche (vd. in part. 18-20 sul potere occulto attribuito alle hastae Martiae). Il significato di questo oggetto nelle fonti giuridiche romane è analizzato da Scarano Ussani 1996, 321-332 (in part. 323 ss.). Sulla hasta dei busti monetali di età imperiale vd. Bastien 1992-1994, 436-442; sul ruolo giocato della lancia e dallo scudo nella proclamazione degli imperatori bizantini, interviene Morrisson 1997, 759, 761-764 (fonti). 187 Bastien 1992-1994, 442. 188 Atlante dei complessi figurati, tav. 117. La numerazione delle scene sull’Atlante è quella di Petersen - Domaszewski - Calderini, Marcus-Säule. Per la datazione della Colonna, su cui sa- rebbero illustrate le guerre germaniche conclusesi nel 180 d.C., vd. Coarelli 2008 (“non prima” del 184 d.C.). 189 Vollenweider - Avisseau-Broustet 2003, 207-208, Cat. nr. 267; Costantino il Grande, 267-268, Cat. nr. 97; Roma e i Barbari, 214, Cat. II.17. Vd. anche infra, n. 308. 190 Denarii del 32-29 a.C.: RIC I, 59, nr. 251, tav. 5; Giard 1976, 65-66, Cat. nrr. 1-4, 6-11, tav. I. 191 Bastien 1992-1994, 437. 192 Gnecchi I, 40, nr. 1, tav. 20, 4. 193 L’aggettivo è stato variamente interpretato: senza ferro secondo Varrone attraverso Servio, Aen. 6, 760 (hasta pura: id est sine ferro), cioè senza punta per alcuni autori, ma fonti, rilievi e monete mostrano che si tratta di una normale lancia. Per Alföldi 1959, 1-2, l’aggettivo farebbe riferimento ad oggetti non macchiati di sangue, ossia di carattere puramente rituale e onorario, mai utilizzati per la guerra; così anche Maxfield 1981, 86. Sull’argomento ritorna Le Bohec 1998, che ritiene tali hastae realizzate con punte in metallo diverso dal ferro, essendo quest’ultimo materiale “impuro”. 194 E. Saglio, in Dict. Ant., II.1, 362-363, v. Dona militaria; E. Cuq, in Dict. Ant., III.1, 41, v. Hasta; Maxfield 1981, 82-86, tav. 5 a-b, c-d e fig. 8 (vexillum, hasta pura); Le Bohec 1992, 80-82. Le menzioni di dona militaria scompaiono praticamente dall’epigrafia dopo il 217 d.C.: Le Bohec 1998, 29. della base della Colonna di Antonino Pio il primo è nelle mani di Faustina, il secondo è tenuto dall’imperatore). Così è nelle raffigurazioni monetali con busti, quando questa insegna è identificabile 182 (vd. ad esempio i solidi di Antiochia del 363 d.C. dell’imperatore Giuliano che impugna sul dritto uno scettro con sfera e sul rovescio uno scettro con aquila 183). In tal senso esso parrebbe dover essere riservato alle attività civili del principe. Meno definibile è il significato cerimoniale dello scettro lungo, che si trova associato, come si è già detto, anche alla tenuta militare sia negli esempi sopra ricordati (con corazza e paludamentum è abbigliato Onorio del dittico di Anicio Probo già menzionato) sia, costantemente, nei busti monetali del III e IV secolo 184. 53 Clementina Panella delle antiche decorazioni con avanzamenti di carriera e ricompense in denaro 195. Sui busti monetali il primo ad essere rappresentato con una lancia sembra Marco Aurelio 196; in seguito l’attributo diventa sempre più frequente in associazione con busti dell’imperatore sempre in abiti militari (elmo, scudo, egida, corazza, paludamentum), laddove, se puntato in avanti, sembra da interpretare in senso offensivo e da collegare ad emissioni che corrispondono ad una campagna militare, se appoggiato sulla spalla, indicherebbe invece la presenza dell’imperatore tra le truppe prima di un’operazione o dopo di essa 197. Hastae con punte a sei lame che partono da un calice di foglie non esistono, come abbiamo già notato, né in natura, né nelle figurazioni. La documentazione più abbondante per questo tipo di attributo è quella restituita dalle monete, ma le immagini sono troppo piccole e semplificate per consentire di cogliere la forma delle punte. Tuttavia punte più articolate (a lama multipla?), che ricordano genericamente quelle da noi rinvenute, sembrano riconoscibili su alcune monete, come su solidi di Costantino I a cavallo della zecca di Antiochia del 324-325 d.C. 198, di Costantino II in abito militare con asta nella destra e globo nella sinistra sia della zecca di Treviri del 317 d.C. (img. 43) 199 che di Antiochia del 324 d.C. 200, sulla monetazione aurea di Anthemius della zecca di Costantinopoli del 468 d.C. (img. 46) 201, su un medaglione d’oro di Giustiniano nel British Museum di Londra (img. 47) 202. Del tipo detto “a coda di rondine” (à barbelures) è la lancia, simbolo in questo caso del supremo comando militare, impugnata da Stilicone, con clamide e scudo nella sinistra, sul dittico omonimo del 397 d.C., conservato nel Museo e Tesoro del Duomo di Monza (img. 45) 203, o quelle tenute dai Troiani nella scena del cavallo di Troia del Vergilius Romanus (Vat. Lat. 3867, f. 101r.) del V secolo, ma senza dubbio le più vicine alle lance del Palatino sono quelle rette da Costanzo II con tunica ricamata e a cavallo, e dal soldato alla sua destra, su un piatto di largitio del Museo dell’Ermitage di Pietroburgo (il Missorio di Kertch), datato alla metà del IV secolo, con il motivo dell’adventus (img. 44) 204. Due dei nostri tre esemplari a sei lame erano forse montati su una sola asta e potevano spettare ad un tipo di lancia a doppia punta, che era in grado di servire da entrambi i lati, già utilizzata nel mondo greco e ripresa dalla cavalleria romana (Polyb. 6, 25) (vd. la ricostruzione a fig. 7). Raramente rappresentate sui monumenti figurati (si menziona quella impugnata da Traiano nella scena XXVII della Colonna, img. 49 205, identificata ipoteticamente come lancia di feziale da F. Coarelli 206), sono tuttavia rintracciabili sulle monete, dai denarii già citati di Ottaviano a due aurei di Adriano in abiti militari, stante, della zecca di Roma del 132-134 d.C. 207, e a cavallo della stessa zecca del 125-128 d.C. (img. 50) 208, ad un sesterzio di Antonino Pio, stante in vesti militari, con corona di raggi dietro il capo, della zecca di Roma del 145-161 d.C. (img. 51) 209. Dopo questo imperatore inspiegabilmente non compaiono più sulle monete lance a doppia punta, ad eccezione di una emissione di Eliogabalo della zecca di Roma del 218-222 d.C. 210. Ciò potrebbe significare che esse hanno avuto una funzione o un significato particolare, che è andato con il tempo perdendosi. Meno caratterizzata è quindi di difficile identificazione sui documenti figurati è l’asta con lama con due occhielli alla base, solo genericamente confrontabile con le numerose lance a lama semplice tramandate dalle iconografie. Sulle cause di tale fenomeno vd. Maxfield 1981, 248-254. Bastien 1992-1994, 437. 197 Bastien 1992-1994, 442. 198 RIC VII, 396, nr. 27, tav. 11; infra, Pardini, fig. 164. 199 RIC VII, 178, nr. 188 = Aurea Roma, 565-566, Cat. nr. 224. 200 RIC VII, 684, nr. 44; infra, Pardini, fig. 166. 201 RIC X, 413, nr. 2823. 202 Vd. n. 192. 203 Delbrueck 1929, 242-248, nr. 63, tav. 63; Roma e i Barbari, 245, Cat. III.7. 204 Delbrueck 1933, 47 ss., tav. 57; Zaseckaja 1995; Arbeiter 2008, 62, fig. 19. 205 Cichorius, Trajanssäule, tav.21, nr. 67. 206 Coarelli 1999b, tavv. 25-26. Rossi 1985 ritiene che si tratti di un donum ad un soldato meritevole, cioè una hasta pura, ipo- tesi quest’ultima non condivisa da Bastien 1992-1994, 436. La punta della lancia ha due lobi. 207 BMCRE III, 308, nr. 532, tav. 57.14 = RIC II, 363, nr. 203; infra, Pardini, fig. 172 e Id. 2006, 720, fig. 4. 208 BMCRE III, 294, nr. 439, tav. 55, 3 = RIC II, 361, nr. 188(e). Sulla corona di raggi, di origine classica e simbolo di Sol Invictus, vd. Alföldi 1935, 257-262. L’aureola senza raggi (il nimbo) compare invece nelle immagini dei dinasti solo dalla fine del III secolo (vd. i Tetrarchi nella pittura del sacello del culto imperiale a Luxor, img. 67) ed è ampiamente utilizzata nell’iconografia cristiana (Alföldi 1935, 262-263). Il segno, che rimanda al fulgore divino, pone i personaggi viventi sullo stesso piano degli dei e degli eroi a cui esso era in origine destinato, trasferendoli in una sfera ultraterrena. Sul nimbo con cristogramma bibliografia completa in Arbeiter 2008. 209 RIC III, 124, nr. 765. 210 RIC IV.2, 32, nr. 57, tav. 2, 10; infra, Pardini, fig. 177. 195 196 54 I Segni del Potere I vexilla 211. Quattro punte di lancia sono state identificate come supporti di stendardi sia a causa della presenza ai lati della lama di alette, a cui in via di ipotesi poteva essere fissata la traversina che reggeva il drappo, sia per la quantità di tessuto rinvenuto nella fossa, che potrebbe spettare alle stoffe che ornavano le aste. Ai due tipi di lancia presenti potrebbero corrispondere stendardi di forma diversa: panni quadrati, com’è il vessillo già citato conservato nel Museo Puskin di Mosca studiato da M. Rostovtzeff, (vd. fig. 23 e n. 70), panni triangolari allungati (le flammulae nominate da Vegezio? vd. n. 99), com’è quello rappresentato sul già menzionato rilievo dell’Arco di Settimio Severo a Roma (vd. n. 100; img. fig. 66). La documentazione figurata tuttavia non giunge mai ad un punto di dettaglio tale da consentire di distinguere le punte che sostengono i vessilli da quelle delle lance vere e proprie (armi) o da quelle impiegate per altri signa. È possibile e credibile che nella stragrande maggioranza dei casi fossero appunto delle comuni lance utilizzate a questo fine (aste senza punta sono talvolta quelle a cui sono applicati i dracones), ma se l’interpretazione che abbiamo dato dei nostri oggetti fosse giusta, ci troveremo di fronte all’unica attestazione di una tipologia di punte di lancia di età romana con una precisa destinazione d’uso 212. Molto meglio documentati sul piano iconografico sono i drappi collegati alle aste. Per quanto riguarda quelli quadrati, benché le figurazioni mostrino panni riportabili a misure che possiamo ricostruire tra m 0,50 e m 1 per lato (vd. gli straordinari stendardi tenuti dalle personificazioni di alcune Province sulla base del Tempio di Adriano a Roma, img. 75 213, o quelli delle scene di decursio sulla base della Colonna di Antonino Pio nel cortile della Pigna in Vaticano, img. 60 214, o quelli dei pannelli aureliani con scene di Profectio, Iustitia, Rex datus, Clementia, Lustratio, reimpiegati nell’Arco di Costantino, e con scena di Submissio oggi nel Palazzo dei Conservatori, imgg. 61-62 215), le dimensioni dovevano variare, se Crasso nell’attraversare l’Eufrate fa spezzare le aste per impugnare meglio i vessilli “che sembrano delle vele” in modo che non fossero travolti dal vento, “come era già accaduto” (Dio, 40, 18, 3-4), laddove la catastrofe di Carre era stata preannunciata dallo scintillare dei serica vexilla spiegati dall’esercito dei Parti (vd. supra, n. 38). Grande è la bandiera che troneggia al di sopra dell’aquila legionaria all’interno di un accampamento romano nella scena VIII della Colonna Traiana (img. n. 59) 216. Frange e nastri sono attestati talvolta alla fine del drappo e lungo i lati 217. La presenza di lacche rosse sui nostri tessuti suggerisce che tale fosse il loro colore. Benché nelle fonti siano menzionate anche altre colorazioni (caeruleum è il vessillo dato ad Agrippa per le sue vittorie navali: Suet., Aug. 25, 3; bicolora quelli di Aureliano: SHA, Aurel. 13, 3; vessilli rossi e azzurri sono ricordati da Servio, ad Aen. 8, 1, in relazione alla mobilitazione della fanteria e della cavalleria; argentea quelli riservati agli ufficiali di alto rango, etc.), rosso è il vessillo dei comandanti in campo (Plut., Fab. 15, 1; Brut. 40, 5) e degli imperatori, purpureo almeno dalla metà del III secolo (in riferimento ai Gordiani, SHA, Gord. 8, 3: sublata de vexillis purpura; e più tardi a Silvano, Amm. 15, 5, 16: [Silvanus] cultu purpureo a draconum et vexillorum insignibus ad tempus abstracto, ad culmen imperiale surrexit). Rosso, come si è già detto, è lo stendardo con Vittoria del Museo Puskin di Mosca e quello impugnato da un vexillarius nella pittura del tribuno Iulius Terentius nel pronao del tempio di Baal a Dura Europos, datata ad età severiana (img. 99) 218, a Sui vessilli, corrispondenti alle nostre bandiere, generalmente ritenuti il più antico signum dell’esercito romano, si rimanda a Domaszewski 1885, 76-80; A.J. Reinach, in Dict. Ant. IV.2, 1307-1325, v. Signa militaria (in part. 1309, 1313-1314); Id., in Dict. Ant. V, 777, v. Vexillum; W. Kubitscheck, in RE II, A2, cc. 2325-2347, v. Signa (militaria); A. Neumann, in RE VIII, A2, cc. 2446-2454, v. Vexillum, e soprattutto all’articolo di Rostovtzeff 1942, con bibliografia alle nn. 2-3, a cui poco hanno aggiunto trattazioni posteriori (per le quali vd. Forni 1961, 163-166, v. Insegne [in part. 165-166]; Stäcker 2003, 179-186). Utile è il repertorio delle immagini raccolte da Babuin 2001, che segue le tappe delle trasformazioni nel mondo bizantino (dal IV al XV secolo) degli stendardi e delle insegne ereditati dall’esercito romano della tarda antichità. La novità del Medioevo, già peannunciata dalle flammulae nominate da Vegezio nel V secolo, sarà la sostituzione del drappo verticale dei vexilla (il termine scompare nel VI secolo sostituito da signa, labara, vela) con stendardi orizzontali. 212 Per un manufatto in ferro, interpretato come stendardo (?) di età post-antica, inconsueto nella forma, vd. l’esemplare rinvenuto in una delle navi funerarie anglosassoni di Sutton Hoo in Inghilterra (metà del VII secolo), nel cui corredo è documentato anche uno straordinario “scettro” in pietra: Berger - Gamert 1954. Su quest’area funeraria si rimanda ai contributi contenuti in Voyage to the other world. The legacy of Sutton Hoo (Conference on Sutton Hoo, Minneapolis, May 1989), Minneapolis 1992. 213 Claridge et alii 1999. 214 Vogel 1973, figg. 9-17. 215 Scott Ryberg 1967; Koeppel 1986, 47-70, Cat. nrr. 23-31. 216 Cichorius, Trajanssäule, 46-49, tav. 10, nr. 24. 217 Caratteristiche (dimensioni, forma, colori) dei vessilli in Alföldi 1959, 12-14. 218 Cumont 1926, 89-114, e Atlas, tav. L; Rostovtzeff 1942, 9394, tav. V, con bibliografia; vd. anche Reddé 2004, 458-460, fig. 21, con ulteriore e più aggiornata bibliografia. 211 55 Clementina Panella cui sembra potersi accostare il vessillo (o la tabula) impugnata da uno dei personaggi che assistono alla teofania dei Tetrarchi nella pittura della cappella dedicata al culto imperiale del tempio di Ammon a Luxor, datata intorno al 300 d.C. (img.67) 219; rosso è quello che compare nell’immagine del Consularis della Palestina e della Campania nelle vignette di uno dei manoscritti della Notitia Dignitatum (img. 81) 220; chiaro invece è il vessillo tenuto da un fanciullo nel Calendario dipinto di Ostia ai Musei Vaticani di incerta datazione 221. Ma perché degli stendardi sarebbero stati seppelliti nella nostra fossa insieme a segni di rango? È noto che essi rivestono un’importanza capitale nell’organizzazione dell’esercito, nella identificabilità dei corpi militari e nei movimenti delle truppe (muta signa) da cui dipendeva l’esito degli scontri, in definitiva rappresentavano insieme alle aquile delle legioni e alle altre insegne militari 222 l’onore di Roma. Di qui la venerazione in cui tutte le insegne erano tenute e il culto che ad esse spettava: religio romanorum tota castrensis signa veneratur, signa iurat, signa omnibus deis praeponit (Tert., Apol. 16, 7) 223. Stesso concetto in Tertulliano (Ad nat. 1, 12, 15) e in Minucio Felice (Oct. 29, 7: Vos plane, qui ligneos deos consecratis, cruces ligneas ut deorum vestrorum partes forsitan adoratis. Nam et signa ipsa et cantabra et vexilla castrorum quid aliud quam inaura- tae cruces sunt et ornatae?). Ancor prima fa fede della sacralità dell’aquila e dei signa un episodio relativo all’ammutinamento delle truppe sul Reno nel 14 d.C., laddove il legato Munazio Planco si sottrae all’uccisione abbracciando le insegne (Tac., Ann. 1, 39, 6). Nel Castro Pretorio di Roma un sacello accoglieva i signa dei pretoriani (img. 56) 224; nei principia dei castra ad essi erano riservate are e cappelle (aedes signorum, aedes principiorum), presso le quali era conservato anche l’aerarium, il peculio dei soldati 225. In età repubblicana le insegne delle legioni erano riposte dopo ogni campagna nel Tempio di Saturno e di Ops, ove era l’erario, sotto la custodia dei questori (Liv. 3, 69; 4, 22; 7, 23); con Augusto quelle dei trionfatori erano nel tempio di Marte Ultore; in età imperiale altri templi devono aver ricevuto insegne (Dio, 55, 10; 56, 17; SHA, Gall. 8, 6: pompa per i decennali di Gallieno: Hastae auratae altrinsecus quingenae, vexilla centena praeter ea, quae collegiorum erant, dracones et signa templorum omniumque legionum ibant), mentre le prede di guerra a detta delle fonti, erano consacrate a seconda della loro importanza nel Tempio di Giove Feretrio (spolia opima di Romolo, di Cornelio Cosso, di Marcello), nel Tempio di Marte, nel Tempio di Quirino e presumibilmente anche altrove 226. Ad ogni tipo di insegna attendeva un personale, per Deckers 1979, 635, figg. 20-22, 34. Magistra Barbaritas, fig. 519: Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, cod. Clm 10291, f. 198v. Per questo importante documento tardoantico, vd. la bibliografia a n. 334. Le insegne bizantine menzionate dalle fonti scritte sono quasi unicamente di colore rosso: Babuin 2001, 34-35. 221 Datato tra il 2 a.C. e il 2 d.C. da Piganiol 1923, 44-57; sulla traversina sono montati tre busti imperiali identificati da questo studioso con Augusto e i nipoti Gaio e Lucio Cesare, ma tale datazione, riproposta da Salomonson 1956, 99, fig. 33, non sembra compatibile con la cronologia della pittura. Se si tratta di personaggi imperiali, un’alternativa possibile è che siano rappresentati Settimio Severo e i figli Geta e Caracalla. Vd. ora la scheda del Catalogo della Mostra “Roma. La pittura di un Impero”, Milano 2009, 298-299, IV.7 (G. Rossini, con bibliografia: prima metà del III secolo). 222 Per un elenco dei signa dell’esercito romano vd. Feugère 1993, 55-62 e Stäcker 2003, 170 ss.; per una raccolta delle rappresentazioni di insegne militari romane sui monumenti figurati (inclusi i vessilli) si rimanda a Domaszewski 1885 e all’indice iconografico, con bibliografia aggiornata, pubblicato da Stoll 2001a. Dedicato alle insegne (aquilae, signa e vexilla) sulle monete dell’Asia Minore è il volume di Rebuffat 1997; i tipi con leggende menzionanti l’esercito o valori militari sui quali abbondano insegne di tutti i generi, sono ora presentati da Salamone 2004, in part. 56-66, 76-80, 146-151, 156-158 e passim. Il tipo dell’imperatore, stante, circondato dalle sole insegne è già su un aureo di Adriano della zecca di Roma del 132-134 d.C. (RIC II, 363, 204b, tav. XIII, 255). 223 Sul culto delle insegne vd. Domaszewski 1895; Birley 1978; Id. 1988 ed ora con ampio apparato bibliografico Stoll 2007, 457 che sottolinea tra l’altro il rapporto tra culto dei signa e culto imperiale. Fondamentali in quest’ambito sono le dediche ai signa dei singoli corpi militari: su di esse Panciera 1994 = Id. 2006b (in part. 1455 e n. 10, con bibliografia). Per le dediche alle aquile delle legioni vd. Herz 1975; Speidel 1984, 3-43. È il carattere religioso delle insegne che giustificherebbe la loro presenza nelle cerimonie ufficiali (Durry 1938, 309). 224 RIC I, 122, nr. 25: aureo di Claudio coniato a Roma nel 4445 d.C.; vd. Pardini 2006, 718-719, fig. 3. 225 L’esistenza di cappelle delle insegne è assicurata dalle fonti letterarie, dalle iscrizioni, dalle monete e dagli scavi. Bibliografia e confronti, partendo dal pretorio di Lambesi, in Cagnat 19122, 480 ss.; bibliografia aggiornata sui principia di questo campo e in generale sulla topografia religiosa degli accampamenti militari è in Panciera 1989 = Id. 2006a (in part. nn. 62, 70, 77, 79), che prende spunto dalla scoperta di iscrizioni al Genio dei Castra Peregrina di Roma, situati tra la chiesa di Santo Stefano Rotondo e di S. Maria della Navicella, per analizzare la specificità del culto di questa unità stanziata sul Celio. In relazione al culto delle imagines imperiali (imagines sacrae), custodite presso i signa o appese su di essi, vd. Panciera 1994 = Id. 2006b (in part. 1455 e nn. 1, 9, 11). Lo scavo di alcuni praesidia del deserto orientale egiziano hanno infine consentito a Reddé 2004 di riesaminare le principali questioni (tipologiche e cultuali) dei sacelli presenti negli accampamenti romani. 226 Maxfield 1981, 58-59. 219 220 56 I Segni del Potere così dire, “specializzato”: l’aquilifer incaricato di portare l’aquila della legione, il signifer a cui era affidato il signum dei manipoli, l’imaginifer incaricato di presentare nelle cerimonie il busto imperiale (vd. img. 104) 227, il vexillarius che generalmente era il portabandiera della cavalleria. Nelle fonti letterarie e nelle iscrizioni sono menzionati vexillarii della cavalleria legionaria, della cavalleria ausiliaria, delle cohortes equitatae o numeri equitati, della cavalleria pretoriana – equites praetoriani, specutatores, evocati –, degli equites singulares 228, ma i vexilla non erano una prerogativa dei soli corpi di cavalleria 229. Quando le insegne diventavano bottino del nemico, il disonore colpiva lo sconfitto; le legioni che perdevano l’aquila erano in genere disciolte; Augusto, Germanico, Traiano non risparmiarono uomini e mezzi per riconquistare quelle perse da Crasso, Varo, Cornelio Fusco 230. Catturare le insegne dei nemici, perderle e recuperale, piantare gli stendardi nelle città conquistate, sono gli atti che scandiscono la storia militare romana 231. I vessilli erano spiegati presso la tenda del comandante dell’esercito e sulla nave ammiraglia, erano esposti nel praetorium per segnalare lo stato di allerta ed erano usati per dare il segnale dell’inizio del combattimento (belli signum); i vessilli come emblema di unità dell’esercito, delle guardie del corpo imperiali, e in alcuni casi, probabilmente, dello stesso imperatore compaiono sui monumenti imperiali in tutte le cerimonie collegate alla presenza del principe: profectio, adventus, adlocutio, consecratio… Ovviamente quando l’imperatore è circondato dall’esercito insegne, vessilli e altri stendardi si riferiscono alle unità presenti o alle sue guardie personali, benché non sempre sia possibile identificare i diversi corpi militari, in quanto generalmente mancano nelle raffigurazioni le immagini, che, ricamate o dipinte sui drappi, dovevano caratterizzare nella realtà le singole truppe. I vessilli, come tutte le insegne, sono infatti individuali ad una legione, ad una coorte, ad una turma 232. È comune opinione che sulla base della Colonna di Antonino Pio nel cortile della Pigna in Vaticano siano i due corpi scelti a guardia del principe ad effettuare il carosello in onore dei divi Antonino e Faustina (vd. img. 60): i primi appiedati, al centro della scena, con le loro insegne, sarebbero i pretoriani 233, mentre la decursio sarebbe eseguita dagli equites singulares con i loro vessilli spiegati 234. Va segnalato tra l’altro il “predominio” dei vexilla sui rilievi urbani di età aureliana, i quali assai spesso riempiono il fondo delle scene, accentuando il carattere barocco delle figurazioni 235. Che siano esistiti anche vessilli del comandante in capo dell’esercito e poi del principe è opinione argomentata da A. Alföldi 236 e ripresa oggi da J. Stäcker, che spiegano con gli stretti vincoli tra l’esercito e i loro generali già in età tardo-repubblicana e tra truppe e imperatori in età imperiale la ragione dell’apposizione del nome del primi e in seguito del nome e delle imagines (da Augusto in poi) dei secondi sulle insegne, ma anche sugli scudi o sulle lance, così come attestato dalle fonti. Lo provano le iscrizioni sui drappi (lettere di porpora con nome del corpo militare e di Crasso, in Dio, 40, 18, 3; di Vespasiano in Suet., Vesp. 6, 3 e Tac., Hist. 3, 13, di Vitellio in Tac. Hist. 2, 85; 3, 13 e 31= nome ed effigie). Tali sarebbero gli stendardi presenti secondo A. Alföldi in alcune scene delle Colonne di Traiano 237 e di 227 All’imaginifer erano affidate le tabulae con i ritratti imperiali: così nelle illustrazioni della corte di Ponzio Pilato del Codex purpureus Rossanensis, un evangeliario bizantino del VI secolo conservato nel Museo Diocesano di Rossano (tavv. XIII-XIV) (qui img. 104). Su questo straordinario documento vd. Volbach - Hirmer 1958, 108-109, Cat. nr. 239; Cavallo et alii 1987, con bibliografia. 228 Sugli equites singulares, guardia a cavallo del principe, composta da elementi barbarici scelti tra le alae degli ausiliari, stanziata in età traianea nei Castra Priora sul Celio e dalla fine del II secolo (anche) nei vicini Castra Nova, si rimanda ai lavori di Speidel 1994a; Id. 1994b; sui due accampamenti romani vd. Colini 1944, 314-317; 353-359. 229 Tra le formazioni non a cavallo vi sono, ad esempio, i vigili: sull’argomento Webster 19792, 139-140; Stäcker 2003, 182-183. 230 Le insegne riconquistate ai Parti, deposte dopo il 20 a.C. nel tempio di Marte Ultore, sono un topos iconografico dell’età augustea: vd. Zanker 1989, 198-203, figg. 80, 145, 146-148. 231 Per i principali avvenimenti documentati dalle fonti lettera- rie che hanno per “protagonisti” i vexilla, vd. A.J. Reinach, in Dict. Ant. IV.2, v. Signa militaria, 1323-1324. 232 Stoll 2001b, 111, n. 18. 233 Su questo corpo scelto di fanteria, che garantiva dall’età augustea la sicurezza del sovrano, acquartierato per tre secoli (dal 23 d.C.) nei Castra Praetoria fuori dalla Porta Viminalis, vd. Durry 1938. 234 R. Cagnat, in Dict. Ant. IV.1, 632-637, v. Praetoriani (in part. 637); Durry 1938, 226, 309-310; sul significato della decursio in occasione dei funerali imperiali si rimanda a Richard 1966. 235 Tra i monumenti meno citati è un altare del II secolo di Villa Medici a Roma con quattro vexillarii e relativi stendardi, elevato forse dai cavalieri del Pretorio: Durry 1928; Schraudolph 1993, 247 s., tav. 50. 236 Alföldi 1959, 13, n. 135. 237 Cichorius, Trajanssäule, tav. 31, nr. 103, scena XL; tav. 37, nr. 127, scena LI; tav. 78, nr. 279, scena CV (qui img. 58). 57 Clementina Panella Marco Aurelio 238, nelle quali l’attributo sembra avere un rapporto diretto e esclusivo con la figura imperiale. Benché vada rilevato che anche in questi casi non si possa escludere che le “bandiere” spettino al corpo di guardia imperiale (com’è probabilmente per due vessilli tenuti dai cavalieri su un multiplo di Costantino del 315 d.C., img. 69) 239, vi sono alcune situazioni in cui l’ipotesi dello studioso tedesco potrebbe cogliere nel vero (vd. sulla Colonna Traiana la scena CV con rappresentazione di un consiglio di guerra, nella quale davanti a Traiano, seduto e circondato da alti ufficiali, è inginocchiato un vexillarius che regge uno stendardo: img. 58 240), né sapremmo spiegare se non con un vessillo imperiale quello che compare sulla poppa della nave su monete che commemorano i viaggi di Adriano (sesterzi del 132-134 d.C. della zecca di Roma con leggenda Felicitati Augusti 241) o, sempre con la stessa iconografia, il ritorno in patria di Settimio Severo e di Caracalla dopo le guerre partiche (img. 65) 242. In quest’ambito possono essere menzionati anche due sesterzi di Nerone del 63 e del 64 d.C. della zecca di Roma con raffigurazione di decursio (l’imperatore è preceduto in un caso da Vittoria o dalla dea Roma, seguito nell’altro da un vexillarius 243: img. 71 e img. 57), un medaglione in bronzo 244 ed un aureo di Settimio Severo della zecca di Roma del 196-197 d.C. con rappresentazione di adventus (l’imperatore a cavallo è preceduto dalla dea Roma) (img. 73) 245; un aureo di Caracalla del 215 d.C. della zecca di Roma con un vessillo che fa da sfondo ad una scena in cui l’imperatore in abiti militari e con scettro nella sinistra sacrifica ad Esculapio 246; e infine il rilievo costantiniano sul lato Nord dell’Arco di Costantino con scena di adlocutio (img. 68) 247, su cui compaiono due stendardi ai lati dell’imperatore. E ovviamente i vessilli con i vota (v. infra). Una fonte che sembra confermare l’esistenza di stendardi propriamente imperiali è Erodiano (5, 4, 9) che in riferimento a Macrino menziona “ta tes basileias symbola”. Anche il nostro contesto spinge a tenere nel debito conto questa ipotesi. D’altro canto è lungo questo percorso che il labarum 248 potrà diventare, attraverso una sintesi di valori militari e religiosi, il nuovo simbolo dell’imperatore e dell’esercito. È questo il signum che Eusebio vede in un’elaborata versione in seta e pietre preziose a Costantinopoli poco dopo il 325 d.C. descrivendolo con abbondanza di particolari (VC 1, 32), e che figura sulle monete a partire dal 326-327 d.C. come un comune vexillum con il cristogramma montato sulla punta (così su un nummus della zecca di Costantinopoli del 327-328 d.C. , img. 86, con leggenda Spes Publica, ove il labarum trafigge un serpente; sul drappo tre applicazioni rotonde identificate con ritratti di Costantino e dei figli come Cesari 249) o ricamato sul panno (così su un multiplo da due solidi di Costantino della zecca di Siscia del 326-327 d.C. per i suoi vicennali, con leggenda GLORIA S(A)ECVLI, img. 87 250, e sulle numerosissime emissioni dei suoi figli tra le quali si segnalano un solido di Costante della zecca di Siscia del 337-340 d.C., img. 89 251, un medaglione argenteo da quattro silique di Costanzo II, coniato dalla zecca di Aquileia del 340-350, img. 90 252 e, tra le tante spettanti a questo imperatore, una siliqua della zecca di Treviri del 337-340 d.C. 253 e un centenionalis della zecca di Siscia del 350 d.C. 254; qui l’imperatore impugna addirittura un labaro per mano). Sulle monete la raffigurazione di imperatori che sostengono questo tipo di insegna compare tuttavia per la prima volta sul multiplo di due solidi di Costantino del 326-327 d.C. già citato e attraversa tutto il IV secolo (vd. 238 Caprino et alii 1955, tav. 7, fig. 15 = scena VIII; tav. 8, fig. 16 = scena IX; tav. 24, fig. 49 = scena XXXVIII; tav. 33, fig. 67 = scena LIII; tav. 49, fig. 98 = scena LXXVIIIb; tav. 53, fig. 106 = scena LXXXVI; tav. A = scena XVI; tav. E = scena CXI (particolare della tav. 66, fig. 131). 239 RIC VII, 364, nr. 36, tav. 9. La moneta si segnala per il dritto su cui compare l’imperatore con alto copricapo e per la sapiente composizione del rovescio. Il cristogramma sul diadema è visibile solo sull’esemplare di Monaco, qui riprodotto. 240 Cichorius, Trajanssäule, tav. 78, nr. 279. 241 RIC II, 431, nr. 706; Sträck 1933, tav. 16, 837, 840; infra, Pardini, fig. 211. 242 RIC IV.I, 114, nr. 178 (Settimio Severo); RIC IV.1, 221, nr. 58 (Caracalla): infra, Pardini, fig. 213. 243 RIC I, 159, nrr. 107 e 108, tav. 19 (datati al 63 d.C.) e 162, nr. 171 (datato al 64 d.C.). 244 Toynbee 1986, tav. XLIII, 6. RIC IV.1, 100, nr. 73, tav. 5, 20. RIC IV.I, 25, nr. 270a, tav. 12, 15; infra, Pardini, fig. 210. 247 De Maria 1988, tav. 99, 1. 248 È il primo “stendardo bizantino”, completamente basato sul modello imperiale romano: Babuin 2001, 7-9. Su quest’insegna si rimanda ad Alföldi 1939; Egger 1960; sulle raffigurazioni monetali vd. Radnóti-Alföldi 1998; Ead. 2000, 150 ss. 249 RIC VII, 572, nr. 19, tav. 18, 19. 250 RIC VII, 451, nr. 207 = Costantino il Grande, 237, Cat. nr. 53. 251 RIC VIII, 349, nr. 9, tav. 15, 9; Depeyrot 1996, 199, nr. 1/4, tav. 18, 1/1. 252 RIC VIII, 320, nr. 49; Paolucci – Zub 2000, nr. 380 (datato al 342 d.C.). 253 RIC VIII, 142, nr. 31, tav. 1, 31. 254 RIC VIII, 369, nr. 284, tav. 16, 284. 58 245 246 I Segni del Potere tra le tante attestazioni un multiplo di solido di Magnenzio della zecca di Aquileia del 351 d.C., img. 91 255). Si ritrova tra la fine del IV e il primo quarto del V secolo nei conî di Arcadio 256, Onorio 257 e Teodosio II (img. 95) 258. Questa iconografia procede parallela a quella in cui l’attributo nelle mani dell’imperatore è un vessillo con il drappo decorato con un elemento globulare (forse un medaglione: vd. un mezzo follis dello stesso Costantino della zecca di Treviri del 307 d.C. 259), o con uno o più dischi (semplificazione delle pietre preziose di cui parla Eusebio?) e la leggenda Princeps iuventutis. Quest’ultimo motivo compare anche su un solidus di Costanzo II Cesare della zecca di Siscia del 334 d.C., img. 85 260, su un multiplo da quattro solidi e mezzo di Costantino II Cesare del 333 d.C. della zecca di Costantinopoli 261, laddove il panno può essere decorato con altri motivi geometrici (vd. un miliarense di Graziano della zecca di Treviri del 367-375 d.C., img. 92) 262, con iscrizioni menzionanti i vota (così su un nummus della zecca di Siscia di Costantino I del 320 d.C., img. 102, e su un solido di Costantino II Cesare della stessa zecca del 326327 d.C. 263), o può essere privo di simboli, come sembra quello rappresentato su un piatto di largitio in argento del Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra (img. 93) di Valentiniano (I o II), dove l’imperatore alla testa dei suoi soldati impugna nella destra un globo niceforo e nella sinistra uno stendardo 264. Ma l’usura della superficie può aver reso illeggibile una eventuale decorazione sul drappo. Posizione del personaggio e vessillo ricordano l’immagine di Costantino I su un medaglione di Costante Cesare del 333 d.C. della zecca di Costantinopoli (vd. img. 88) e di Onorio sul dittico di Probo (img. 39). Por- tato infine come un trofeo compare su un medaglione di Valentinano I 265, conservato nel Museo di Belgrado (img. 94). Nel corso del V secolo il labaro, comunque decorato, svanisce quasi completamente dalle fonti iconografiche e scompare del tutto nella monetazione nei primi decenni del VI 266, per ricomparire alcuni secoli più tardi come una placca quadrangolare rigida che sembra aver perduto il suo originale ruolo di bandiera di battaglia per diventare piuttosto il simbolo del potere imperiale sia su monete e sigilli datati tra la metà del IX e il XII secolo 267, sia su altre classi di manufatti (su una miniatura del Codice Paris gr. 510 del IX secolo della Bibliothèque Nationale di Parigi, sugli smalti sia della Corona detta di Costantino IX Monomaco del Museo Nazionale di Budapest, sia della sacra Corona di Ungheria ora nel Parlamento di Budapest, entrambe dell’XI secolo, sulla stoffa del Tesoro della Cattedrale di Bamberg dello stesso secolo 268). Va anche detto che tali tipi di immagini si innestano su una tradizione iconografica di lunga durata, quella in cui l’attributo nella destra dell’imperatore è un’insegna militare (in genere il signum con l’aquila legionaria) 269, che lo connota come capo dell’esercito, già presente nella monetazione del III secolo, accompagnata dalla leggenda Princeps iuventutis (così su un aureo e un denario di Diadumeniano Cesare della zecca di Roma del 217-218 d.C., img. 82 270; su un sesterzio di Filippo II Cesare della zecca di Roma del 244-246 d.C., img. 83 271; su un aureo di Costanzo Cloro Cesare della zecca di Roma del 294 d.C., img. 84) 272, ripresa senza interruzione nella monetazione più tarda (così su un solido di 255 RIC VIII, 327, nr. 130 = Costantino il Grande, 220-221, Cat. nr. 26. 256 RIC IX, 154, nr. 38c; LRBC I, 75, nr. 1574 (383-392 d.C.), della zecca di Siscia. 257 RIC X, 326, nr. 1261, tav. 37, multiplo in argento della zecca di Roma del 395-403 d.C. 258 RIC X, 355, nr. 1801 = Aurea Roma, 574, Cat. nr. 256, solido della zecca di Ravenna del 423 d.C. 259 RIC VI, 213, n. 743, tav. 2, 743; vd. anche infra, Pardini, fig. 184. 260 RIC VII, 454, nr. 227; così anche un solido di Costante, coniato a Siscia nel 334 d.C.: RIC VII, 454, nr. 228, tav. 14. 261 RIC VII, 580, nr. 65; vd. anche un medaglione aureo di Costanzo II, coniato sempre a Costantinopoli nel 333 d.C.: RIC VII, 580, nr. 66, tav. 19. 262 RIC IX, 19, nr. 26 (E), tav. 3, 5. 263 RIC VII, 451, nr. 209, tav. 13; infra, Pardini, fig. 190. 264 Delbrueck 1933, 179-182, tav. 79; Aurea Roma, 575-576, Cat. nr. 258; Arbeiter 2008 identifica l’imperatore con Valenti- niano II e data il piatto al 385-386 d.C. (con bibliografia aggiornata a n. 18). 265 Kondić 1973, 48-49, tav. VIII; Bastien 1992-1994, tav. 205, 2. 266 Scompare nelle fonti letterarie anche il termine vexillum sostituito da labara, vela, signa. 267 Babuin 2001, 9-10, figg. 39-40, con bibliografia a n. 13 (monete di Niceforo III e Alessio I). 268 Pertusi 1976, 507-509, tav. I, 3 e n. 64 con bibliografia delle opere citate. Per la seta di Bamberg uno studio recente è in Prinzing 1993: l’imperatore è a cavallo con il busto frontale e regge con la sinistra un vessillo quadrangolare privo di simboli (vd. Babuin 2001, 50, fig. 34). 269 Varia l’attributo tenuto con la sinistra: scettro lungo o corto con sfere alle due estremità, lancia, scudo o altro stendardo. 270 RIC IV.2, 13, nrr. 101 e 103 (aurei) e nrr. 102 (tav. 1, 19) e 104-105 (denarî) e ibid., 22, nr. 211, tav. 4, 13 (sesterzio, Roma, 217-218 d.C.). 271 RIC IV.3, 101, nr. 258, tav. 9, 8. 272 Depeyrot 1995, 84, nr. 9/13; Calicò 2003b, 818, nr. 4866. 59 Clementina Panella Costantino II del 324-325 della zecca di Nicomedia 273 e su un solido di Costanzo II Cesare della zecca di Cizico del 324 d.C., img. 85 274, entrambi con leggenda Princeps iuventutis). L’iconografia d’altro canto viene da lontano: da una parte essa ricorre già nel I secolo d.C. sui rilievi funerari dei portatori di insegne 275, dall’altra, come simbolo di vittoria, i vexilla compaiono, come i trofei, nelle mani di divinità, di personificazioni, di figure allegoriche: è il caso di Vittoria che impugna tale attributo su un aureo del 29-27 a.C. che celebra Azio (img. 70) 276, così come, con uno scarto di secoli, sul Cammeo detto del Trionfo di Licinio del IV secolo, già menzionato (vd. n. 308, img. 103) e sul frontale di elmo di Agilulfo del Museo del Bargello di Firenze del VII secolo (I Longobardi b, 55-57, Cat. nr. 1.1.15; Roma e i Barbari, Cat. V.4), di Virtus (o dea Roma) che precede un imperatore flavio su un rilievo dei Musei Vaticani (img. 72) 277, o precede Settimio Severo a cavallo in una scena di adventus su monete coniate a Roma del 196-197 d.C. (img. 00) 278 e questo stesso imperatore su quadriga trionfale 279, di Marte su esemplari del 18-17/16 a.C. che commemorano la partenza di Augusto per una spedizione 280, di Fides con victoriola nella destra e vessillo nella sinistra su aurei e denarii del 193-194 d.C. di Settimio Severo (img. 74) 281, delle Province (Mauretania (?) sulla base già citata del Tempio di Adriano e su monete di questo stesso imperatore, img. 75 282; Cappadocia e Mauretania su sesterzio e su dupondio o asse sempre di Adriano della zecca di Roma del 134-138 d.C., img. 76-77 283; Pannonia su sesterzio di Lucio Elio Cesare della zecca di Roma del 137 d.C. 284; Armenia su denario di Lucio Vero della zecca di Roma del 163-164 d.C. 285, e su denarii e aurei di Marco Aurelio della zecca di Roma del 163-164, img. 78 286; Africa su un argenteus di Massimiano della zecca di Cartagine del 296-298 d.C., img. 80) 287, della Tyche Per concludere, testi, monumenti figurati e monete mostrano che tutti questi oggetti (sceptra, hastae, vexilla) hanno una loro straordinaria continuità e sembrano far parte di rituali precisi. Lo scettro con una o due sfere è un attributo dell’imperatore e in alcuni casi dell’imperatrice, lo scettro conico coronato dal globo e sormontato dall’aquila di Giove è riservato all’imperatore e “temporaneamente” ai consoli e ai magistrati preposti ai giochi e compare nelle mani del principe nelle cerimonie civili e religiose; la hasta, a una o, più raramente, a due punte è portata dagli imperatori raffigurati generalmente in vesti militari, nella loro funzione di capi dell’esercito ed è il simbolo della Virtus e della costante vittoria del principe, elemento centrale dell’ideologia imperiale e soprattutto tardoantica 289; lo stesso ruolo è giocato dai vexilla nella loro duplice valenza militare e sacrale. Per lance e stendardi valgano le osservazioni di A.E. Arslan:«Le armi da parata rappresentavano simboli del potere in quanto in esse – in una cultura essenzialmente militare – si manifestava l’”immagine” che il detentore proponeva di se stesso all’altro, completa di tutte le prerogative del potere stesso» 290. Va anche notato che man mano che si rafforza il potere personale degli imperatori, si formalizzano sempre più i segni distintivi esteriori di rango, riservati al principe e alla sua famiglia, che entrano progressivamente, e con un’accelerazione da Diocleziano in poi, nel rituale dell’assunzione del potere, con relativa normativa che RIC VII, 613, nr. 74. 274 RIC VII, 646, nr. 21. 275 Ampia rassegna di questa classe di monumenti in Domaszewski 1885, 28 ss. 276 RIC I, 60, nr. 268. 277 Koeppel 1984, 22-23, fig. 6, Cat. nr. 3. 278 RIC IV.1, 100, nr. 73, tav. 5, 20 (aureo); RIC IV.1, 189, nr. 719 (sesterzio, Roma, 196 d.C., tav. 00, 73); 122, nr. 248 (denario, Roma, 202-210 d.C.). 279 Pick 1898, 369, nr. 1327; infra, Pardini, fig. 182. 280 RIC I, 51, nr. 150a; infra, Pardini, fig. 202. 281 RIC IV.I, 92, nr. 1. 282 RIC II, 455, nr. 897 (sesterzio) e nr. 898 (dupondio o asse), Roma, 134-138 d.C. 283 RIC II, 447, nr. 847 e nr. 848, tav. 16, 324. 284 RIC II, 481, nr. 1059, tav. 16, 337; infra, Pardini, fig. 181. 285 RIC III, 256, nr. 526. 286 RIC III, 219-220, nrr. 78-82 e 85 (denarii) e nrr. 83 e 86 (aurei). 287 RIC VI, 424, nr. 12b, tav. 8. 288 Dr. Busso Peus Nachfolger, Auktion 366, 29/10/2000, Frankfurt am Main, lotto nr. 879. 289 Sull’ideologia della vittoria imperiale e sulle cerimonie ad essa connesse tra età antica e Medioevo si rimanda a McCormick 1986. 290 Arslan 2003, 346. 273 60 di Antiochia su un bronzo di Filippo l’Arabo del 244249 d.C., (img. 79) 288, etc. Su queste ultime emissioni è in genere la celebrazione della campagna vittoriosa o della conquista che giustifica l’assunzione di tale iconografia. Chiude la serie il vessillo rosso nella mani della Campania (img. 81) e della Palestina già citate, sulla Notitia Dignitatum. I Segni del Potere puniva anche con la morte una loro indebita appropriazione 291. Storici antichi 292 e critica moderna sono pressoché unanimi nell’attribuire a Diocleziano e alla Tetrarchia la simbologia e l’apparato di segni dell’età tardoantica, lentamente elaborati nelle loro forme a partire dall’esempio persiano e ora indissolubilmente legati all’essenza della carica imperiale, vista come ufficio divino 293. Si tratta essenzialmente del manto di porpora e del diadema, che spesso associati, appaiono nelle fonti 294 la condizione sufficiente e necessaria per indicare un imperatore 295: “simboli inanimati del potere” in cui si manifesta una specie di “osmosi tra soggetto ed indumento” 296. Benché gli autori antichi nominino raramente gli scettri e quasi mai le hastae in associazione con il principe (una delle rare attestazioni è in Amm. 26, 6, 15: proclamatosi imperatore, Procopio usa come emblemi distintivi del suo nuovo ruolo una veste bordata d’oro, una hasta e un pezzo di porpora), gli uni e le altre sono costantemente presenti sugli strumenti visivi della propaganda imperiale, dalle statue alle monete, e, più tardi, sui missoria e sui dittici 297. Alla base del fenomeno c’è una società, che fin dalle origini, come forse nessuna altra nell’antichità 298, aveva fatto dei segni esteriori (dagli abiti alle insegne) l’elemento caratterizzante di ogni ordine o gruppo sociale, carica o magistratura. In cima a tale scala c’è da Augusto in poi il princeps, il cui ruolo assume con il tempo e a seconda del carattere dei “protagonisti” tratti sempre più nettamente “monarchici” ed autocratici. A tale ruolo corrispondono attributi, abbigliamenti ed ornamenti capaci di far percepire, nella realtà come nella sua trascrizione in immagini 299, questa nuova concezione del potere. Penso in particolare allo scettro e al globo, laddove altre insegne, tra le quali la hasta, la sella curulis, i fasces, la corona, etc. erano già prerogativa dei magistrati nelle varie vesti di comandanti dotati di imperium, consoli… In tutta l’età repubblicana lo scettro, in quanto simbolo dell’antica autorità regale, era stato guardato con ostilità e sospetto e relegato, dalla cacciata dei re, nella sfera politicamente innocua della mitologia, della leggenda o della sovranità straniera. L’eccezione, come si è già detto, era rappresentata dalla cerimonia del trionfo, ma in quel caso si trattava di un “prestito” della divinità al generale vittorioso. In senso metaforico il termine compare negli autori latini come espressione che indica il governo in generale. In senso allegorico lo scettro compare nella monetazione repubblicana in quanto simbolo del terrae marisque regimen dello Stato romano e come tale è attributo del Genio del Popolo Romano o della dea Roma 300. Per il globo (sfera celeste o terrestre) è possibile seguire un percorso analogo a quello dello scettro. Rappresentato in età repubblicana come attributo di divinità, di figure mitologiche, di personificazioni (Roma, Vittoria, Urania, Tellus, Aeternitas, Providentia, Genius Senatus, Genius Populi Romani) o, da solo, sulle monete come immagine dell’Ecumene sotto il governo 291 Amm. 14, 9, 7; accusa mossa a Costanzo Gallo di aver fatto tessere un indumentum regale dalla corporazione dei tessitori di Tiro, fornendo in tal modo un’ulteriore prova della sua volontà di aspirare al potere supremo. 292 Eus., Chron. 296; Aur. Vict., Caes. 39, 2, 4. 293 Per una sintesi sull’evoluzione del cerimoniale in età tetrachica (Diocleziano) e costantiniana vd. Alföldi 1934; Teja 1993. Il tema del rapporto tra principe e spazi della città, tra principe e popolo rivissuto attraverso i rituali (adventus, funus, consecratio, trionfo e cerimonie legate all’eternità di Roma) e le loro trasformazioni nel tempo nel senso di una progressiva formalizzazione del modello primo-imperiale e di una ritualizzazione, leggibile attraverso il passaggio dalla salutatio all’adoratio, dall’adventus all’epifania, è stato trattato di recente, per il periodo che va da Augusto a Massenzio, da Benoist 2005. 294 Su di esse si esercita l’acuta analisi di Ignazio Tantillo in questo volume. 295 Sul simbolismo della porpora in età tardoantica vd. Avery 1940; Reinhold 1970; Delmaire 1989, 455-459; De Bonfils 2002. Sui simboli del potere in questa stessa età si rimanda a Teja 1993, 633-635. Il diadema sarebbe stato portato già da Aureliano secondo l’anonimo autore dell’Epitome De Caesaribus, 35, 5, ma la forma canonica – d’oro con pietre preziose – si generalizza con Costantino. Giuliano venne proclamato imperatore dai soldati con il capo adornato da una torques in mancanza di un diadema: Amm., 20, 4, 17-18. Su un particolare copricapo di origine orientale, il καµελαύκιον, da Costantino a Giustiniano, si rimanda al recente studio di Bianchi - Munzi 2006, 297-313, che ripercorre la storia del tipo, non trascurando altri elementi dell’abbigliamento imperiale, di cui si segue (attraverso l’analisi delle fonti scritte) l’evoluzione progressiva e senza cesure dal III secolo in poi (vd. anche n. seguente). Alle insegne imperiali a Bisanzio è dedicato il saggio di Pertusi 1976, che distingue nei protocolli di intronizzazione del V e VI secolo le insegne primarie (clamide e tunica purpurea, diadema gemmato, fibbia gemmata, etc.) da quelle secondarie (tra le quali vi è lo scettro). Sui simboli e sui comportamenti “romani” ripresi dai re barbari nella loro imitatio imperii, vd. Arce 2007. 296 De Bonfils 2002, passim. 297 Combinazione di fonti letterarie ed artistiche nella decifrazione e nella definizione della tarda antichità in MacCormack 1995. 298 Reinhold 1970, 72. Sull’origine dall’Etruria delle principali insegne delle cariche magistratuali e sacerdotali di Roma, trattazione a tutto campo di Torelli 2006 e 2007, con bibliografia; vd. anche Delpino 2000. 299 Nelle rappresentazioni figurate anche il gesto è una denotazione di status: Brilliant 1963. 300 Salomonson 1956, 63-75, figg. 24-31. 61 Clementina Panella universale di Roma, compare sotto il piede di una statua di Ottaviano nel Foro, riprodotta su alcune monete del 32-29 a.C. della zecca di Brindisi o di Roma 301 – ma già sotto il piede di Cesare in una statua bronzea eretta in suo onore in Campidoglio (Dio, 43, 14, 6) – ed è raffigurato nelle mani di Augusto nelle vesti di Giove su una delle tazze d’argento del Tesoro di Boscoreale del 12 d.C. 302. Il potere imperiale sembra essersi mosso in sostanza in termini strumentali facendo propri i simboli della religione (lo scettro di Giove, l’asta di Marte e di Quirino, il globo di Vittoria o della dea Roma) «che vengono riferiti alla sfera politico-amministrativa, approfittando certamente della natura unicamente formale della religione romana (“ufficiale” già di per se stessa) e della contestuale frammentazione delle fedi religiose nel territorio dell’impero. Frammentazione che ne permise una gestione laica fino alla metà del IV secolo» 303. Non è un caso che gli oggetti da noi ritrovati siano confrontabili con gli insignia esibiti da Augusto (anticipato sotto certi aspetti dai protagonisti delle guerre civili, soprattutto da Cesare), cioè da colui che con sapiente dosaggio tra conservazione, trasformazione e innovazione (delle istituzioni, della religione e dell’iconografia 304) aveva fondato l’Impero. Si tratta di una vera e propria strategia della comunicazione attraverso i simboli del potere 305 e della nascita di un “lessico simbolico” finalizzato in una prima fase alla formazione del consenso e in seguito (dall’età tetrachica in poi) rivolto all’espressione di un’autorità assoluta, fortemente militarizzata e sempre più spersonalizzata 306. Il contesto Insegne imperiali: perché? L’analisi del contesto fornisce alcune chiavi di lettura fondamentali per l’interpretazione del ritrovamento. Benché i singoli elementi possano anche essere appannaggio di altri soggetti (gli scettri dei consoli e, in particolari circostanze, dei magistrati preposti ai giochi; i vessilli e le RIC I, 59, nr. 256; b; Arnaud 1984, 114-115. 302 Héron de Villefosse 1899, tavv. 31-33; Zanker 1989, 243, fig. 180; Bastien 1992-1994, 499 e passim. Per le lunghissima presenza di questo attributo nelle rappresentazioni (soprattutto monetali) degli imperatori in quanto simbolo del loro potere universale, si rimanda ad Alföldi 1935, 117-120; per il suo significato di simbolo e sulla tipologia delle sue raffigurazioni ad Arnaud 1984. 303 Arslan 2003, 342. 301 62 lance, oltre a spettare alle diverse unità dell’esercito, costituivano alcuni dei dona militaria assegnati agli ufficiali a seconda del loro grado), è il loro insieme (sceptra, hastae e vexilla) che suggerisce la loro appartenenza ad un corredo imperiale. In quest’ambito significativa è la presenza nella medesima fossa degli stendardi, i quali non sono, come gli insignia (scettri, hastae), rappresentativi di una funzione o di uno status, volti a trasmettere una sintetica informazione sulle caratteristiche e prerogative di una determinata potestà (civile o militare), ma sono indicativi di un corpo di truppa (legio, cohors, turma) o di collegia civili e militari (vd. il passo della Historia Augusta già citato relativo alla vita di Gallieno, SHA, Gall. 8, 6: …vexilla centena praeter ea quae collegiorum erant…, o l’altro passo contenuto nella vita di Aureliano, SHA, Aurel. 34, 4: vexilla collegiorum atque castrorum) e non si spiegherebbero, ad esempio, in un contesto consolare. Essi compaiono invece accanto all’imperatore nei cortei e nelle diverse cerimonie ufficiali, impugnati dalle sue guardie del corpo (equites singulares, pretoriani) e dai suoi armigeri, e in età tarda nelle mani stesse dell’imperatore (vd. il vessillo con il drappo apparentemente privo di decorazioni tenuto dall’imperatore sul già citato piatto di largitio del Museo d’Art et d’Histoire di Ginevra). Sulle monete, come si è già detto, la raffigurazione dell’imperatore che regge un vessillo (con o senza cristogramma) compare solo a partire da Costantino (emissioni del 326-327 d.C. per suoi vicennali, vd. supra) e prosegue, come abbiamo visto, ossessivamente per tutto il IV secolo. La “personalizzazione” doveva essere affidata tra l’altro agli elementi dipinti o ricamati sui drappi quali i simboli di un corpo militare, (vd. la Vittoria sul vessillo del Museo Puskin di Mosca già citato), i ritratti imperiali 307 sia inseriti nei medaglioni, sia rappresentati come busti (immagine di due Augusti sul vessillo tenuto da Vittoria sul cammeo detto del Trionfo di Licinio, img. 103 308), ma anche iscrizioni quali il nome e il numero dell’unità dell’esercito (Veg. 2, 13: singulis centuriis singula vexilla constituerunt, ita ut, ex qua 304 2005. Su questi aspetti vd. Fraschetti 1990; Zanker 1989; Scheid Oltre ai titoli segnalati alla n. precedente, per Augusto, vd. De Maria 1991. 306 Arslan 2003. 307 Sull’imago dell’imperatore sui signa vd. Stäcker 2003, 186191. 308 Costantino il Grande, 267-268, Cat. nr. 97; Roma e i Barbari, 214, Cat. II.17. Supra, n. 189. 305 I Segni del Potere nostro contesto, dal momento che una traccia di doratura è presente su un frammento di stoffa, che si è conservato sul terminale a campana dell’impugnatura del corto scettro con sfera in vetro verde. Che siano esisti vessilli dei comandanti dell’esercito in età repubblicana e in seguito degli imperatori è ipotesi già prospettata ed argomentata da A. Alföldi 318, che sembra trovare una conferma proprio dal nostro ritrovamento. Attraverso un diverso percorso a questa stessa conclusione giunge anche Ignazio Tantillo (supra, 15-16): «È probabile che, col passare del tempo, gli stendardi dei corpi di guardia – pretoriani o altro – siano stati sempre più percepiti come parte integrante della pompa dell’imperatore, fino quasi a essere assimilati alle sue insegne». L’episodio dei soldati che non vedono più le “insegne regali” di Macrino indicherebbe che «almeno in certi contesti, l’imperatore fosse identificabile attraverso degli emblemi appariscenti, presumibilmente bandiere o vessilli posti su aste. A questa categoria potrebbero appartenere i materiali rinvenuti sul Palatino». cohorte vel quota esset centuria in illo vexillo litteris esset adscriptum, quod intuentes vel legentes milites in quantovis tumultu in contubernalibus suis aberrare non possent; vd. ad esempio i vessilli con il nome della Legio II Augusta su rilievi funerari conservati nel British Museum di Londra, img. 98 309; lo stendardo con l’iscrizione della Legio VI Ferrata sul rovescio di una moneta di Otacilia Severa, img. 101 310; l’iscrizione vex(illum) eq(uitum) sul vessillo del rilievo funerario di C. Rufio da Poetovio in Pannonia) 311, il nome del comandante in campo (nome di Crasso in Dio, 40, 118) e dell’imperatore (nome di Vespasiano in Suet., Vesp. 6, 3 e in Tac., Hist. 3, 13; nome ed effigie di Vitellio in Tac., Hist. 3, 13 e 31), il numero dei giubilei imperiali (tra le raffigurazioni numismatiche con vota un nummus di Licinio della zecca di Aquileia 312, e uno di Costantino dalla zecca di Siscia, img. 102 313, entrambi del 320 d.C.), e altro (vd. le lettere H(astati) e P(rincipes) sui vessilli/stendardi di un denarius di C. Valerius Flaccus dell’82 a.C., img. 96 314, o la scritta HIS(pania) sul vessillo dei denarii del 51 a.C. di C. Coelius Caldus riferiti all’omonimo proconsole di Spagna del 98 a.C., img. 97 315). Iscritto è il vessillo tenuto dalla personificazione di Alexandria Troas turrita su un bronzo della metà del III secolo (img. 100) della zecca di questa città 316 e quello impugnato da Onorio nel dittico di Anicio Probo gia citato (img. 39) 317. Decorati dovevano essere anche i tessuti che avvolgevano gli oggetti del Anche il luogo del ritrovamento parla in favore dell’appartenenza di questi oggetti ad un imperatore. Le insegne infatti non sono state rinvenute in qualsiasi zona della città, ma sul Palatino ove era la residenza imperiale e la sede degli uffici e dei servizi del Palazzo 319. Ma possiamo forse spingerci anche oltre. Poiché il RIB 1341, 1707, 2139; Domaszewski 1885, 77, fig. 94. BMC Galatia, Cappadocia and Syria, 286, nr. 25, tav. XXXV, 2. 311 M. Schleiermacher 1984, 230, nr. 107; Domaszewski 1885, 77, fig . 95. 312 RIC VII, 401, nr. 59; infra, Pardini, fig. 189. 313 RIC VII, 438, nr. 109. 314 RRC, 379-381, nrr. 365/1a-c, tav. XLVII (zecca di Massalia); vd. anche il denario di Cn. Nerius, coniato a Roma nel 49 a.C.: RRC, 460, nr. 441/1, tav. LII. 315 RRC, 458, nr. 437/2a, tav. LII; sull’argomento si rimanda ad Alföldi 1959, 13-14, e a Rostovzeff 1942, 96-97, n. 15, che fornisce un elenco delle raffigurazioni di vessilli con iscrizioni rinvenuti in Britannia e altrove. 316 BMC Troas, Aeolis and Lesbos, 14, nr. 46. 317 Supra, n. 162; in questo caso il simbolo cristiano è sulla punta della lancia. 318 Alföldi 1959, 13-14. 319 Di essi, in assenza di iscrizioni e di fonti, pochissimo sappiamo. Ci si chiede ad esempio dove fosse alloggiata la coorte pretoria (500/600 uomini) che stazionava nel Palazzo: «essa montava al palazzo tutti i giorni all’ora ottava, ufficiali in testa, dopo la siesta e prima della cena» (Durry 1938, 275; qui per le fonti: Tac., Ann.12, 69; Hist. 1, 29; Suet., Otho 6; Mart. 6, 76). Secondo una vecchia ipotesi i vani sostruttivi (di età adrianea) della terrazza della Vigna Barberini, il cui fronte settentrionale prospetta sull’area di scavo, avrebbero ospitato gli alloggi della guardia imperiale (Rosa 1873). Vale la pena di ricordare che il complesso era costituito da un numero straordinariamente alto di sale (circa 150 ambienti) certamente praticabili e frequentate (tra di esse, in alcuni casi con rivestimenti in marmo e mosaico, vi era anche un’area riscaldata), ma con una destinazione non determinabile né in questa età, né nelle successive. Per una diversa destinazione (sede della cancelleria imperiale divenuta in età adrianea da organo domestico servizio di stato) si pronunciano Villedieu - Veltri 1999, 777-778 ed ora Villedieu 2007, 263, n. 225, almeno in riferimento ai vani sostruttivi del fronte occidentale, riprendendo una suggestione di Coarelli 2000, 302. Ammesso che tutto ciò si tenga, penso che non sia possibile escludere dalla riflessione complessiva sulle funzioni e sull’uso dei vani che costituiscono il basamento del complesso della Vigna Barberini, le “Terme di Eliogabalo” (l’“edifico con cortile” di Mar 2005), che nascono insieme al rifacimento severiano della grande facciata settentrionale della Vigna, agganciandosi ad essa (Panella 2006a, 288-299; Saguì 2009). Quest’ultimo edificio in particolare, di assai incerta identificazione (horreum, schola?), si trova nell’isolato attiguo a quello da cui provengono le insegne imperiali. 309 310 Gli spazi del ritrovamento 63 Clementina Panella “guardaroba” in senso lato di un sovrano non poteva esaurirsi negli oggetti pur preziosi da noi recuperati (mancano manufatti d’oro che non potevano non essere presenti nel corredo imperiale 320) e poiché le modalità della deposizione (in una rudimentale fossa praticata in un seminterrato) indicano senz’ombra di dubbio l’imminenza di un pericolo, è assai probabile che sia stato occultato ciò che si aveva sotto mano. Ciò giustifica l’ipotesi che le insegne si trovassero in un sito poco distante da quello del loro ritrovamento o nel luogo stesso in cui sono state rinvenute, che riteniamo appartenere ancora nell’epoca in questione ad un’area sacra. Se questo era il luogo ove erano originariamente custodite, occorrerebbe spiegare per quali ragioni in un santuario siano stati conservati attributi destinati alle apparizioni pubbliche dell’imperatore (in sostanza una parte del suo “vestiario”). Se i vessilli sono oggetto di culto religioso tanto da essere preservati in templi e in appositi sacelli, le altre insegne non hanno analogo segno, benché di una certa sacralità sembrano anch’esse investite in quanto “riflesso” del carattere divino attribuito in termini sempre più consistenti alla figura del sovrano. Di tale evoluzione danno conto le fonti letterarie già con Diocleziano e poi con Costantino e la sua famiglia (le indicazioni riguardano soprattutto, come si è già detto, la porpora e il diadema), ma il processo è di lunga durata e di fatto si conclude alla fine del V e nel VI secolo. Di esso tuttavia non riusciamo a seguire le tappe. D’altro canto, la scelta di quel luogo potrebbe giustificarsi anche con la destinazione dell’area sacra, con le cerimonie che essa ospitava o che si svolgevano in edifici prossimi. Ciò ci obbliga a ripensare alla funzione cultuale dell’intero complesso e alla sua identificazione (Curiae veteres, sacrario del Divo Augusto, entrambi, o altro), questioni sulle quali da tempo ci interroghiamo 321 e alle quali questo ritrovamento pone nuovi interrogativi soprattutto in relazione alla fase più tarda della sua vita. Va segnalato che le insegne sono state interrate e non più recuperate. L’operazione indica che non si voleva che esse finissero in mani altrui, che andassero distrutte 322, “reimpiegate” o “riciclate” (azioni definitive quanto la distruzione) 323. La storia antica è pervasa dalla violenza operata sui corpi dei nemici, che è difficile che non si esercitasse anche sugli oggetti del vinto e su ciò che essi rappresentavano. Ciò può suggerire che il personaggio a cui tali insegne appartenevano era in grave pericolo, tanto da indurre qualcuno dei suoi seguaci a nasconderle (ma con la speranza di poterle disseppellire qualora la minaccia si fosse allontanata), oppure che il “titolare” non era più in grado di esibirle, in quanto fuggito o defunto. L’atto della deposizione può rispondere pertanto a due diversi obiettivi: quello del nascondere o del seppellire. Il nascondere implica la speranza di un recupero, come avviene per i ripostigli monetali o per i tanti “tesori”, che per il solo fatto di essere stati da noi ritrovati testimoniano che i proprietari non erano riusciti a rientrarne in possesso 324; il seppellire ci sembra un’azione definitiva, che, se si applicasse a questo caso, implicherebbe a monte la volontà o la certezza di un “non recupero”. Un indizio in questo senso potrebbe essere fornito dalla mancanza del coronamento dello scettro con il calcedonio, quasi certamente realizzato in materiale prezioso, sottratto forse dall’esecutore materiale dell’interramento. Ma ciò porterebbe a supporre che anche altri emblemi collegati alla dignità imperiale siano stati trafugati nella medesima circostanza. Questa ipotesi non può essere scartata a priori, ma ci si domanda allora perché non siano stati sottratti altri oggetti sicuramente preziosi (vd. la sfera in calcedonio). Si può invece escludere che gli interventi di età post-antica (vd. supra) abbiano intaccato in modo consistente il deposito, dal momento che la fossa delle insegne è stata solo sfiorata dalle ruberie tardomedievali. Un altro punto in discussione è se l’operazione in sé Si veda la descrizione di Claudiano (Cons. Stil. II, 88-94) dei tesori di Teodosio ereditati da Arcadio ed Onorio. 321 Panella - Zeggio, 2004; Panella 2006a. 322 Si ricordi lo scempio che si fa dei vessilli con il nome e l’effigie di Vitellio e lo sbigottimento dei soldati quando vedono le insegne lacerate: Tac., Hist. 3, 13. 323 Non so se a questo proposito sia lecito ricordare i due passi ammianei (31, 12, 10 e 31, 15, 2) nei quali si racconta che prima della battaglia di Adrianopoli Valente trasferì dentro le mura della città principalis fortunae insignia (solo mantello di porpora e diadema?) e i suoi tesori, insieme ai suoi alti ufficiali, “illic ut arduo in munimento conditos”. Le insegne dovevano essere salvate ad ogni costo in quanto preziose al pari del tesoro o in quanto simboli del potere da esse detenuto? La fonte non lo dice. 324 Basta scorrere a questo proposito l’indice dei materiali presentati nel volume Roma e i Barbari, laddove il fenomeno assume connotazioni vistose sia durante le lotte tra imperatori e usurpatori (vd. il Tesoro di Kaiseraugst in Svizzera, probabilmente interrato durante la guerra tra Costanzo II e Magnenzio nel 350-353 d.C.: Il tesoro nascosto), sia nell’età delle invasioni soprattutto nelle regioni centroeuropee che sono state il teatro degli scontri. Sulla tipologia dei “tesori”in Occidente con particolare attenzione alle distribuzioni spaziali e alla cronologia dei contesti vd. Martin 1997. 320 64 Seppellire o nascondere? I Segni del Potere possa aver avuto anche un carattere rituale, sia stata cioè determinata dall’esigenza che questi oggetti non venissero profanati. Gli stendardi, come si è già detto, hanno una loro sacralità (accentuata dal fatto che si trattava dei vessilli di un imperatore?), ma l’inviolabilità e l’intangibilità potrebbero aver investito anche gli altri distintivi del potere del principe. Si ritiene infatti che sia esistito un processo di sacralizzazione delle insegne imperiali, di cui danno conto le fonti letterarie già con Diocleziano e poi con Costantino e la sua famiglia (le indicazioni delle fonti riguardano, come si è già detto, la porpora e il diadema), ma il processo è di lunga durata e di fatto si conclude alla fine del V e nel VI secolo. «Di pari passo con il cerimoniale dell’ascesa (al trono, ndr) acquistarono importanza le insegne imperiali: Eusebio (VC 1, 22) ad esempio riferisce che Costantino venne rivestito della porpora paterna e giunse dal palazzo imperiale del padre. Possiamo interpretare questo dettaglio come una prova del fatto che le insegne imperiali stessero acquisendo – di per sé – un significato sacro 325 e che non fossero prodotte ad hoc ad ogni ascesa; di conseguenza il passaggio delle insegne da un imperatore all’altro doveva essere integrato nel cerimoniale dell’ascesa. Potrebbe sembrare che alla fine del V secolo questa integrazione fosse già avvenuta e che il suo significato fosse ormai chiaro a tutti, se dopo aver detronizzato Romolo Augustolo, Odoacre inviò le insegne a Costantinopoli (Anon. Val. 64) e se per poter svolgere l’ascesa del cerimoniale di Giustino, fu necessaria la presenza delle insegne imperiali» 326. Una deposizione rituale può essere supposta, ma non provata. D’altro canto in questo contesto sembra prevalente l’esigenza di impedire un’appropriazione indebita di ciò che ad altri apparteneva e, viste le circostanze, potrebbe non avere un particolare significato il fatto che gli oggetti siano stati interrati negli annessi di un luogo di culto, a meno che non fossero già qui custoditi (circostanza questa che avrebbe accresciuto la loro “santità”). Come si vede, non offriamo soluzioni, ma problemi. Infine vi è la cronologia del contesto. La fossa da cui esso proviene taglia un pavimento la cui preparazione si data agli inizi del III secolo (tra i reperti datanti una moneta di Commodo = 180-192 d.C. e frammenti di Sigil- lata africana C, la cui diffusione inizia intorno al 200 d.C.), ed è coperta da strati che si datano agli inizi del IV secolo per la presenza delle più antiche forme in Sigillata africana D, una ceramica esportata a partire dal 300 d.C., e di una moneta di Diocleziano del 297-298 d.C. La fossa è perciò “bloccata” nella sequenza stratigrafica tra gli inizi del III e gli inizi del IV secolo 327. L’analisi al 14C, effettuata su quattro campioni di legno di uno degli astucci, ha fornito due range, uno più ampio: 118-309 d.C con un margine di probabilità del 95,4%. e uno più ristretto: 150-264 d.C. con un margine del 68,2%. I risultati si allineano pertanto con quelli ricavati dallo studio dei reperti ceramici e delle monete. Pur non precisandoli, non li contraddicono. Poiché indicano l’epoca nella quale il fusto da cui è tratto il legno è stato abbattuto, essi forniscono un termine post alla realizzazione di uno dei foderi, che a sua volta non può, come è ovvio, coincidere con quella dell’interramento che chiude invece il ciclo di vita e d’uso di questi manufatti. Certo è invece che la cronologia della loro deposizione costituisce solo il termine ante della loro fabbricazione, che è sicuramente precedente. Diventa perciò fondamentale capire se la fossa sia rimasta in vista per qualche tempo (e ciò che accadrebbe se non tenessimo conto delle terre che la coprono; il che è francamente poco probabile) o se i primi strati rinvenuti al di sopra di essa siano contestuali, come riteniamo, alla deposizione delle insegne. In alternativa dovremmo supporre che un’intera fase d’uso di questo vano (quella spettante al III secolo) sia stata asportata agli inizi del IV secolo e sostituita dalla stratigrafia che copriva la fossa. Ma se ciò fosse accaduto, le insegne sarebbero state già “ritrovate” in quell’occasione. Va infine segnalato che sugli strati degli inizi del IV secolo si accumulano livelli di terreno e nuovi battuti del secondo quarto del IV secolo. Alla metà del V secolo l’ambiente in cui è stata praticata la fossa risulta definitivamente riempito con scarichi di terre e detriti (vd. infra). La stratigrafia e l’archeometria escludono in ogni caso la possibilità che il deposito sia da collegare ai saccheggi di Roma del V secolo (da parte di Alarico nel 410 d.C. e di Genserico nel 451 d.C.) o alla caduta dell’Impero di Occidente per mano di Odoacre nel 476 d.C., ipotesi queste che sembravano prospettabili prima dello studio e dell’analisi della stratigrafia e dei materiali che essa ha restituito. 325 Non concorda con questa interpretazione delle fonti Tantillo 1998; vd. anche supra, 20. 326 MacCormack 1995, 276. La ceramica è stata studiata da Lucia Saguì, le monete da Giacomo Pardini (infra, 161-168, 169-173). Cronologia del contesto 327 65 Clementina Panella Ad eccezione delle due punte di lancia in ferro (fig. 5; Cat. nrr. 9-10), gli altri oggetti rinvenuti hanno caratteristiche tecniche (fusione a cera persa delle cannule) e tipologiche (l’impiego di oricalco e ferro, la presenza di un motivo a fiore sia sulle lance da parata che sullo scettro con sfera verde; dimensioni e fattura delle tre sfere in vetro) che fanno pensare ai prodotti di una stessa officina, che era evidentemente in grado di realizzare oggetti particolari ed unici maneggiando e combinando metalli (oricalco, ferro, rame, oro) con vetro, pietre dure, tessuti, legno, cuoio, capacità queste ben documentate nella fabbricazione delle armi e delle uniformi militari da parata o da cerimonia, esibite sui rilievi funerari spettanti ad ufficiali o a funzionari di rango. D’altro canto, ad eccezione dei tre scettri, le lance a più lame e le lance ad alette, benchè cerimoniali, rimandano all’equipaggiamento dell’esercito. Il “corredo” potrebbe perciò essere stato realizzato in una fabrica di tal genere di pertinenza statale o sotto il controllo dello stato non solo o soltanto per l’uso di materiale pregiato, ma anche per l’impiego di tecnologie idonee alla realizzazione di leghe complesse quali l’oricalco 328. Lo zinco allo stato puro non poteva infatti essere prodotto nel mondo antico (e non lo sarà fino al XVIII secolo) per motivi di ordine tecnico, soprattutto perché esso ha un punto di fusione e un punto di ebollizione piuttosto bassi in confronto alla riduzione del rame con cui doveva combinarsi. Mentre per altre leghe si usavano metalli puri, raffinati separatamente, nel caso dell’oricalco occorreva mescolare minerali zinciferi (la calamina ad esempio) con il rame in condizioni riducenti. Il controllo di simile processo non era agevole. Va detto che l’oricalco potrebbe provenire anche dalla rifusione di materiale “riciclato”. Questa pratica, che dob- biamo presumere la norma nelle fabbriche che lavoravano i metalli, non consente, tra l’altro, agli studi in traccia degli elementi di trarre indicazioni sull’origine delle componenti. Tuttavia l’alta percentuale di zinco contenuto nelle cannule delle due punte di lancia con alette (fig. 6; Cat. nnr. 11-12), ripettivamente del 31% e del 24% porterebbe ad escludere almeno in questi due pezzi una produzione secondaria tramite rifusione di altri oggetti, in quanto lo zinco ad alte temperature evapora, con una perdita che è stata stimata del 10% 329. Il che vorrebbe dire che gli oggetti in lega originale avrebbero contenuto una quantità di zinco assolutamente eccezionale (41%, 34%). Va segnalato inoltre la possibilità che lo Stato avesse il monopolio di tale lega, dal momento che non si poteva permettere a fonditori poco scrupolosi di appropriarsene per battere moneta 330, e che esercitasse controlli sulla qualità del metallo destinato alle emissioni monetali, anche se ignoriamo in che modo questi ultimi venissero esercitati 331. Sulle officine di armi i dati, soprattutto per l’epoca in questione (III/inizi IV secolo: si ricordi che i materiali del Palatino possono essere anche più antichi del momento del loro interramento), sono assai scarsi. In età imperiale esse si trovavano all’interno dei castra (con manodopera costituita da militari o da artigiani indipendenti: fabricenses) accanto agli arsenali (armamentaria) e/o in prossimità degli accampamenti, dislocati lungo i confini dell’impero, sia in Occidente che in Oriente 332. Le iscrizioni attestano l’esistenza di fabbricanti privati che operavano un po’ ovunque per il rifornimento degli eserciti 333. La situazione muta nel corso del IV secolo (si ritiene ragionevolmente in età tetrarchica), quando i documenti legislativi, le iscrizioni e in seguito la Notitia Dignitatum (datata al 425 o al 430 d.C.) 334 mostrano che le officine erano state trasferite in stabilimenti realizzati Healy 1993, 243. Caley 1964, 98-103. 330 Bishop - Coulston 1993, 191. 331 In favore di un uso ufficiale dell’oricalco si esprimono Bayley 1990, 19-20; Healy 1993, 243; Ponting 2002, 568. 332 C. Jullian, in Dict. Ant. II.2, 959-961, v. Fabrica; E. Saglio, in Dict. Ant. I.1, 443-444, v. Armamentarium. Sui dati disponibili relativamente al rifornimento di armi all’esercito in età imperiale (I-III secolo) vd. MacMullen 1960, 23-29 (fonti letterarie, papiri, iscrizioni, documentazione archeologica). I dati sulle attività collegabili alla fabbricazione o alla riparazione di armi negli accampamenti situati sul Reno, sul Danubio, in Britannia raccolti sinteticamente da Coulson - Bishop 1993, 183-186, tendono a ridimensionare il ruolo dei privati nella produzione militare, laddove edifici e scarti di lavorazione possono testimoniare che sotto questo aspetto le guarnigioni erano o potevano essere autosuffi- cienti. Alcuni elementi mostrano che tale autosufficienza non viene meno con le trasformazioni introdotte dalla nascita delle fabricae di stato nel IV secolo (ibid., 188). 333 Sulla produzione, sulla tecnologia e sui diversi tipi di materiale utilizzati (inclusi il legno e il cuoio) nelle officine che rifornivano di armi il mercato militare una sintesi con bibliografia è in Bishop - Coulston 1993, 183-195. 334 Accesa è stata la discussione sulla datazione della Notitia, che ha coinvolto anche l’unità del documento, che nascerebbe secondo alcuni studiosi da nuclei stratificati nel tempo e nello spazio. Una sintesi sulle diverse posizioni in James 1988, 257-259 (tab. I e fig. 1), passim. La Notitia rispecchierebbe, con pochissime aggiunte ed omissioni, la situazione delle fabricae così come esse si erano costituite in età dioclezianea e costantiniana. Su questo documento si rimanda alla recente riedizione critica di Neira Faleiro 2005 che contiene tutta la bibliografia precedente, dal- Gli spazi della produzione 328 329 66 I Segni del Potere dallo stato in appositi quartieri di alcune grandi città situate in regioni di frontiera (in alcuni casi nelle capitali delle diocesi), in zone strategicamente importanti e in punti nodali del sistema stradale o fluviale, ma per motivi di sicurezza lontano dai confini dell’impero, dove stazionava il grosso delle truppe 335. Inoltre, il servizio era stata centralizzato a Roma e a Costantinopoli e non dipese più, a partire dal 390 d.C. se non prima, dall’autorità militare, cioè dal prefetto del pretorio, ma dall’autorità civile, cioè dal magister officiorum 336. In una delle vignette della Notitia gli insignia viri illustris magistri officiorum mostrano un campionario delle produzioni ufficiali delle fabricae di stato che dipendevano da questo funzionario (scudi, elmi, spade, cotte di maglia e lance: img. 48) 337. Per l’Italia la Notitia menziona fabricae armorum a Concordia, Verona, Mantova, Cremona, Ticinum, Lucca 338; ad esse forse vanno aggiunte quelle di Benevento e Ravenna (James 1988, 260). Ai barbaricarii, cioé agli artigiani che in età tardoantica decoravano gli oggetti in metallo, a loro volta dipendenti dal comes sacrarum largitionum in quanto maneggiavano oro e argento, era affidato infine il compito di rifinire con incrostazioni e intarsi di metalli preziosi le armi e gli equipaggiamenti militari prodotti dalle fabricae di stato destinate agli ufficiali (supra n. 72). Questi ultimi dati riguardano situazioni più tarde di quelle a cui i nostri materiali si riferiscono e non chiariscono chi abbia rifornito di armi nell’età che ci interessa i numerosi soldati che stazionavano a vario titolo a Roma, ad esempio le guardie imperiali e il corpo dei vigili, e lo stesso imperatore 339. Va detto che le loro uniformi e il loro armamento (com’è il caso dei nostri oggetti) erano di altro livello rispetto a quelle dei soldati in campagna e richiedevano il lavoro di artisti piuttosto che di fabbri. Nonostante la scarsezza di fonti 340 e l’assenza di riscontri archeologici, è facile supporre che nella città, in uno o più armamentaria che rifornivano di armi i diversi accampamenti vi fossero officine in grado di riparare o di fabbricare armi, le quali, essendo riservate a Roma a una ben precisa fetta di “consumatori”, richiedevano una manodopera (militare o indipendente) specializzata. Lo stesso valga per l’abbigliamento, cioè per le uniformi 341. Né i “clienti” diminuiscono tra III e IV secolo. Si ritiene che l’arsenale di Roma che serviva i Castra Praetoria (CIL VI, 2804 = 32579: armanenta[riicohortis p]raetoriae), del quale sono noti un architectus (CIL VI, 2725 = 37189: arc(h)itect(us) armament(arii) Imp(eratoris); età domizianea) e uno scriba (CIL VI, 999 = 31221: scribae armamentari(i); 138 d.C.) 342, non fosse solo un deposito 343, ma dovesse essere connesso, come l’edizione di O. Seek del 1876 alla rilettura di Jones 1964, dai contributi sulle illustrazioni e sugli emblemi degli scudi di Grigg 1979 (Appendix I per i principali manoscritti) e 1983 all’analisi del simbolismo delle immagini di Di Dario 2005 (con tavole a colori). Ulteriori riflessioni in Brenk 2005a. 335 Una discussione sulle scelte locazionali delle fabbriche d’armi statali nella tarda antichità è in James 1988, 267-269: tra le cause di tali scelte si segnalano la sicurezza e la vicinanza alle materie prime e alle infrastrutture (strade, porti), mentre l’esistenza già durante il Principato di fabbriche di armi militari o indipendenti, quindi di una più o meno lunga tradizione manifatturiera, potrebbe spiegare le continuità produttive di alcuni centri (Antiochia, Augustodunum e altri). Sulle ragioni che indussero lo stato ad essere coinvolto nella fabbricazione delle armi e nel rifornimento degli eserciti vd. MacMullen 1960, 29 ss.; James 1988, 269-271 con bibliografia; una sintesi in Feugère 1993, 241-243. 336 Su tale funzionario e sui suoi vasti poteri vd. Clauss 1980; sul controllo esercitato sulle fabricae di armi, ibid., 51-54; Jones 1964, 834-837. Sulla data in cui inizia tale controllo non c’è accordo: con introduzione della carica in età costantiniana (James 1988, 290-294) o più tardi nel corso del IV o alla fine del secolo (tra il 388 e il 390 d.C.): Jones 1964, 161, 369; altre proposte in James, loc. cit. 337 Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, cod. Clm 10291 (copia del 1551): Feugère 1993, fig. a p. 240; Di Dario 2005, 95-96, figg. 11, 20 (dal ms. lat. 9661 della Bibliothèque Nationale di Parigi). 338 Per una sintesi sulle fabricae di età tardoantica, ad ognuna delle quali era assegnata la produzione di un determinato tipo di armi (Notitia, capitoli XI e IX), vd. James 1988; Feugère 1993, 239-249; qui anche per i tipi di armi (di qualità più modesta rispetto al passato) prodotte da queste officine. Sulla nascita delle fabricae e sull’equipaggiamento dell’esercito in questa età vd. anche Le Bohec 2006, 108-115, figg. 12-23. 339 E perché no, i gladiatori con le loro straordinarie armi da parata. 340 Per le iscrizioni di Roma che menzionano commercianti o fabbricanti di armi, vd. MacMullen 1960, 25. 341 È nota anche una cohors prima sagariorum (CIL VI, 339 = 30741), che riforniva di mantelli militari le guarnigioni di Roma. Dal IV secolo è al comes sacrarum largitionum che facevano capo le officine fiscali che lavoravano per la vestis, sia cioè per l’abbigliamento dell’imperatore, sia per quello dei militari e funzionari: «Con queste officine e con i monopoli che vanno progressivamente a colpire la porpora e la seta e a riservarne l’uso o la vendita alle sacrae largitiones, queste giocano un ruolo essenziale nell’artigianato dei prodotti di lusso e dirigono una vera industria di Stato, alimentando i tesori imperiali e le largitiones e permettendo al principe di mostrare la sua ricchezza e la sua generosità»: Delmaire 1989, 443. Lo stesso vale per gli orefici e gli argentieri palatini che lavoravano sia per gli oggetti destinati all’imperatore che per i suoi donativi (ibid., 471-494). 342 Durry 1938, 115. 343 I soldati non erano armati. Le armi erano depositate ordinariamente negli armamentaria, a Roma come altrove, e prelevate nel momento del bisogno: Tac., Hist. 1, 35 e 80. 67 Clementina Panella avveniva nei campi legionari, con un centro per la manifattura di armature di pregio. Per altro in città non doveva esistere una sola armeria: è noto infatti un praepositus armamentario ludi Magni (CIL VI, 10164; età traianea?), mentre su un frammento della Forma Urbis severiana (FUR, 6a), collocabile tra il ludus Gallicus e i Castra Misenatium, quindi in prossimità proprio del ludus Magnus (la palestra dei gladiatori) e del Colosseo (Regiones II e III), compare l’indicazione [ARMA]MENTARIA 344. La Notitia Regionum Urbis XIV del IV secolo menziona un solo armamentarium, collocandolo nella Regio II (Caelimontium) 345, ove, come si ricorderà, oltre alle palestre gladiatorie, vi erano i Castra Peregrina e i castra della V coorte dei vigili (entrambi ancora citati sia nella Notitia che nell’altro catalogo del IV secolo, il Curiosum) e, anteriormente alla vittoria di Costantino, i Castra Priora e i Castra Nova degli equites singulares (non più ricordati dai Regionarii, mentre la Notitia registra ancora i Castra Praetoria nella Regio VI, Alta Semita 346, anch’essi rasi al suolo dopo Ponte Milvio). Il committente delle nostre insegne (l’imperatore) e la località del ritrovamento (Palatino) inducono perciò a prospettare l’ipotesi che esse siano state realizzate a Roma, forse addirittura in un’officina situata nello stesso Palazzo. Scorie e scarti di lavorazione di metallo, segnalate in più punti del colle, potrebbero attestare l’esistenza di officine o forse meglio di laboratori collegati a botteghe, di cui vi è una ricca documentazione epigra- fica 347. Ma le iscrizioni risalgono tutte ad età tardo-repubblicana e alla prima età imperiale, mentre scarti e scorie provengono in genere da terre di riporto (è questo il caso di frammenti di bilancine da orafo e di uno stampo per decorazioni in foglia d’oro, nonché di scorie di vetro fuso, rinvenuti in contesti tardi proprio nel nostro scavo), che poco dicono sulla localizzazione di eventuali ateliers. Officine per la lavorazione dell’osso attive nel IV secolo sono state supposte in prossimità della “Domus con aula ad abside” che sorge a pochissima distanza dall’angolo nord-orientale del Palatino 348. Sulle manifatture del vetro, tra cui spiccano negli ultimi decenni del IV secolo quelle sicuramente romane dei vetri incisi, da includere anch’essi tra i prodotti destinati ad una committenza di rango elevato e ad eventi molto importanti (largitiones), la bibliografia è ampia 349. Anche per una di queste officine si è pensato ad una localizzazione in area palatina a causa dell’alta concentrazione di ritrovamenti proprio nelle nostre stratigrafie. Un atelier per la lavorazione di pietre dure, le c.d. preziose sculture, è stata localizzata presso San Pietro in Vincoli sull’Esquilino (nell’orto della chiesa di San Biagio distrutta poco dopo il 1587), la cui attività è databile solo indirettamente (attraverso le immagini di Domiziano e Faustina, che offre un termine post) 350. Infine la presenza a Roma di un prospero artigianato specializzato nella lavorazione di manufatti in materiale prezioso in età tardoantica è confortata da un notevole numero di pezzi di argenteria rinvenuti o attribuiti a Roma stessa 351. Tra di essi va men- E. Rodriguez Almeida, in LTUR 1, 126, fig. 69, v. Armamentaria. In questo caso le armerie dei ludi ci sono note in modo collettivo, ma è possibile che ciascuno di essi avesse il suo deposito di armi (vd. l’armamentarium del ludus Magnus dell’iscrizione CIL VI, 10164, citata sopra). 345 Valentini - Zucchetti, I, 166. 346 Valentini - Zucchetti, I, 171. 347 Sui negotiantes de Sacra Via, aurifices, caelatores, flaturarii, gemmarii, margaritarii, etc. vd. Panciera 1970 = Id., 2006c, con aggiornamento bibliografico nella Nota complementare; Papi 1999. Per i vestiarii, altra attività produttiva e commerciale attestata nella medesima area (Velabro) e nella medesima epoca (I secolo d.C.), vd. Lega 1994; Orlandi 1994. Anche in questo caso la nostra documentazione si ferma alla prima età imperiale. 348 Hostetter et alii 1994; Saint Clair 2003; Schwarz 2006. Alcune officine per la lavorazione dell’osso, ma in contesti più antichi, sono forse localizzabili nell’area della Meta Sudans (età tiberiano/gaiana: De Grossi Mazzorin - Minniti 1995), sul Gianicolo (età antonina) e al Trastevere (Moroni 2008, con bibliografia sulle manifatture di questa categoria di materiali rintracciabili a Roma). Artigianato per tanti versi minore, ma che può applicarsi anche ad oggetti di grande pregio (Talamo 1987-1988). 349 Per tutti si rimanda a Sena Chiesa 2005, 197-198 e a Saguì 2006 con bibliografia aggiornata. 350 Gagetti 2006, 545-547, con bibliografia. Tra i materiali, tutti dispersi, predominano quelli in calcedonio, che nelle sue diverse qualità è la pietra più utilizzata per questo tipo di oggetti (ibid., 50, 52). 351 Sui quali Musso 1983, 129-131, passim. In generale sui problemi posti sia dall’individuazione delle officine di argenteria da cui provengono i tanti “tesori” di età tardoantica, sia dallo loro localizzazione nello spazio e nel tempo, vd. Baratte 1992; per i donativi imperiali di argenterie e per i piatti in argento commemorativi, Delmaire 1989, 471-482. Nella ricostruzione di F. Baratte alle officine indipendenti, sparse un po’ ovunque nell’impero, numerose nei grandi centri urbani in cui esisteva una clientela potenziale di vasellame prezioso, va assegnata la maggior parte dei pezzi rinvenuti nei tesori tardoantichi; limitata l’attività delle officine di stato, che pure esistono, anche in rapporto ai donativi imperiali e ai piatti commemorativi (sulla stessa linea Delmaire 1989, 478-482). Si ritiene che nel caso di committenza ufficiale possa essere esistito un legame di dipendenza di alcune officine dalle zecche (Sirmio, Naisso, Nicomedia in Bitinia, Antiochia), presso cui affluiva la materia prima (Painter 1988, 101, figg. 1-2; più cauto Baratte 1992, 99). La zecca di Roma è stata localizzata sull’Arx in età repubblicana e sotto la chiesa di San Clemente in età domizianea (Coarelli 1994). Si ignora dove essa sia stata trasferita nel IV secolo quando è stata costruita la chiesa, né 344 68 I Segni del Potere zionato il Tesoro dell’Esquilino, detto di Proiecta, della fine del IV secolo 352, a cui appartengono tra l’altro le due applicazioni per mobilio a forma di mani che impugnano uno scettro 353. Questo è l’unico confronto di cui disponiamo per il piccolo scettro con sfera verde. Queste osservazioni, che possono sembrare banali in riferimento a Roma, cioè alla capitale dell’impero più vasto che il mondo antico abbia conosciuto, servono a sottolineare il fatto che essa non è solo un centro di consumo, ma anche centro di produzione di una serie importante di beni di lusso e sede, ancora in età tardoantica – e nonostante la “concorrenza” della nuova capitale Costantinopoli - di prestigiosi ateliers 354. Inoltre consentono di cominciare a gettar luce sulle attività “di servizio” che potevano eventualmente svolgersi nel Palazzo. È ciò che accade sicuramente a Costantinopoli, ove in età costantiniana e soprattutto durante la dinastia dei Costantinidi si verifica uno sviluppo delle officine ove si lavoravano oggetti di grande pregio, concentrate presso la corte, al servizio del comes sacrarum largitionum, da cui dipendevano i donativi imperiali 355. Per il VI secolo il Codex Justianiani (11, 12, 2) impone: ornamenta enim regia intra aulam meam fieri a palatinis artificibus debent, non passim in privatis domibus. Generalmente un ritrovamento pone più problemi di quanti non riesca a risolverne. La realtà delle insegne imperiali è evanescente. Nel mondo romano sono il Senato e il popolo che designano il principe, prerogativa questa che perdura formalmente fino ad età avanzata, benché nel corso del III secolo l’esercito diventi il protagonista della scelta e dell’investitura dell’imperatore di turno, unico titolare del potere sovrano (SHA, Tac. 18, 1-2) 356. Il Senato potrebbe aver costituito in teoria anche il tramite della trasmissione dei segni di status (per esempio il manto di porpora, il diadema, o il globo in quanto emblema del potere universale), ma nulla emerge dalle fonti. Se mai qualche testo fa intravedere che è l’imperatore in carica che ne dispone, come sembra il caso di Giuliano che invia il paludamentum purpureum 357, distintivo della dignità suprema, a Procopio, che appare essere in un determinato momento il suo successore, o di Odoacre che spedisce nel 476 d.C. gli ornamenta palatii all’imperatore d’Oriente Zenone 358, mentre è ritenuta falsa la notizia dell’offerta degli insignia imperii a Claudio il Gotico da parte di Gallieno 359 (supra, 18, n. 37). Di Costantino che indossa la porpora del padre 360 si è già detto. D’altro canto gli scrittori antichi non tracce di una tale attività (scarti, matrici, etc.) sono state finora ritrovate né nel primo sito, né nel secondo (Burnett 2001, 41-43). Per i laboratori di orafi di Roma, ove si concentravano le fortune delle famiglie senatorie con conseguente presumibile richiesta di questo genere di ornamenti, vd. Baldini Lippolis 1999, 240, passim. Strumenti e scarti di lavorazione relativi ad attività orafe provengono, come già detto, anche dallo scavo del Palatino. 352 Vd. n. 104. Questo è l’unico insieme di argenteria rinvenuto a Roma, del quale si ignora per altro la ragione dell’occultamento (il sacco di Alarico del 410?), generalmente determinata, per i numerosi ritrovamenti di argenterie (53 ne registra Baratte 1992, fig. 1, tra IV e V secolo) e per i “tesoretti” monetali, dagli avvenimenti storici o meglio dalle gravi crisi che investono regionalmente o, in più vasta scala, l’impero. Ritrovamenti di questo genere non sono mancati a Roma soprattutto in occasione dei grandi interventi dell’età rinascimentale e barocca, ma si tratta di un patrimonio disperso, venduto, fuso (Cellini 2001; per il Tesoro del Laterano, rinvenuto nel 1586 o 1587 durante la demolizione del Patriarchio lateranense e costituito da 125 monete d’oro – da Teodosio I a Eraclio –, vd. Travaini - Liverani 2007-2008). Quattro ripostigli sono stati recentemente presentati in occasione della Mostra “Memorie dal sottosuolo” (247, 307, 511, 137): dalla tenuta Radicicoli Del Bene nel territorio di Fidene con monete interrate in età commodiana o subito dopo (F. Ceci); dalla tenuta di Lunghezzina con monete dalla metà del II secolo a.C. all’età tiberiana (G. Angeli Bufalini); da Ponte Galeria con emissioni da Costanzo II ad Onorio (F. Catalli); da via Turati all’Esquilino con poche monete e qualche monile d’oro nascosti sotto Valentiniano I o subito dopo (G. Angeli Bufalini). A differenza di quanto avviene in altri contesti, questi depositi non sono il riflesso di momenti di difficoltà che investono la comunità, come nelle regioni interessate da rivolte o da invasioni, ma sembrano imputabili a difficoltà individuali. 353 Painter 2000, 145, fig. 5. 354 Per altro, rimanendo nell’ambito del IV secolo, va segnalato che le dotazioni considerevoli in metallo prezioso lavorato che Costantino e i suoi familiari assegnarono alle chiese di Roma al momento della loro fondazione (San Pietro, San Lorenzo, Santa Croce, basilica del Laterano) e quelle derivanti dall’evergetismo cristiano (più di sei tonnellate d’argento sono registrate nelle chiese di Roma alla metà del IV secolo: Baratte 1992, 91) non possono non aver determinato lo sviluppo delle officine degli argentieri già esistenti e la creazione di nuove. 355 Sena Chiesa 2005, 190; sul ruolo delle sacrae largitiones e del comes che ad esse era preposto tra IV e VI secolo fondamentale rimane il lavoro di Delmaire 1989, già più volte citato. 356 L’argomento è analizzato da Ignazio Tantillo in questo volume, 13-24. Sui protocolli dell’investitura del periodo tardoimperiale vd. Alföldi 1934, mentre si rimanda a Pertusi 1976 e Dagron 1996, 75-105 per il cerimoniale bizantino, illustrato in primo luogo dal De caerimoniis di Costantino Porfirogenito del X secolo, che raccoglie anche i verbali delle investiture dei secoli V e VI. Va sottolineato che la ritualità bizantina, così come essa si era andata codificando (e fossilizzando) nel tempo, si ricollega a forme che vengono da lontano, persiane, ellenistiche, romane. 357 Amm., 23, 3, 2. 358 Anon. Val. (pars posterior), 64. 359 Aur. Vict., Caes. 33, 28; Epit. 34, 2. 360 Sul significato simbolico di questo episodio in funzione della legittimazione per via dinastica della presa del potere da parte di Costantino vd. Tantillo 1998. Dati, ipotesi, problemi 69 Clementina Panella offrono elementi che permettano di capire “chi e quanti” avessero contemporaneamente diritto a portare insegne preziose di rango necessarie per le funzioni ufficiali (o se ne appropriassero). Nel III secolo, tra la fine della dinastia dei Severi e l’età tetrarchica, vi è una successione convulsa di imperatori acclamati dalle truppe un po’ ovunque e una impressionante “fioritura” di usurpatori (valgano per tutti quelli gallici): tra il 235 e il 282 d.C. si registrano diciassette imperatori, di cui quattordici muoiono assassinati, e una quarantina di usurpatori. Con la Tetrarchia poi si moltiplicano i titolari “di insegne” (nove tra Augusti e Cesari se ne contano nel primo decennio del IV secolo). Ci si chiede allora, se, come per la porpora, non si fosse messo in atto un “fai da te”, che giustificherebbe l’ipotesi che quelle da noi ritrovate siano, come suggerisce il buon senso, insegne fatte ad hoc per l’imperatore di turno. Per il globo A. Alföldi ritiene che il fatto che esso appaia durante la Tetrarchia nelle mani anche dei correggenti (monete, statuaria) potrebbe significare che questo attributo avesse perduto il suo originario significato e fosse diventato un’insegna banale 361. P. Bastien obietta che l’orbis tenuto dagli Augusti e dai Cesari avrebbe solo un valore simbolico e suggerirebbe l’idea di un potere condiviso, ma sostiene anche che esso era effettivamente portato dagli imperatori nelle cerimonie pubbliche, come dimostrerebbe un passo di Ammiano (21, 14, 1) relativo ai presagi che annunciavano la morte di Costanzo II 362. Se così fosse, risulta verosimile l’esistenza “fisica” di più globi prima e dopo la Tetrarchia, cioè una “moltiplicazione” parallela a quella dei titolari, di questo attributo imperiale e presumibilmente degli altri emblemi di analogo segno (manto di porpora, scettro, corona o diadema, etc.). Il nostro ritrovamento dimostra tra l’altro che uno stesso individuo poteva possedere più insignia di cui far uso a seconda delle occasioni e delle cerimonie a cui partecipava. Le fonti non parlano quasi mai della sorte riservata agli insegne imperiali dopo la morte del principe ed ignoto è il loro destino. È possibile, ma non provato, che esse accompagnassero il defunto sul rogo e nella tomba. In base ai testi raccolti da Ignazio Tantillo risulta che con vesti militari era stato posto sulla pira Settimio Severo secondo Dione Cassio (76, 15, 2: τὸ ∼µα αυτου ∼…στρατιωτικω ∼ς κόσµηθεν), qualche σω anno prima l’effigies cerea di Pertinace (ucciso e decapitato dai pretoriani) era stata esposta presso i Rostra rivestita dell’abito trionfale (Dio, 74, 4, 3) e poi bruciata nel funus imaginarium voluto da Severo (Dio, 74, 5, 5). Ad un manto di porpora (velamen purpureum) trafugato dalla tomba di Diocleziano (evidentemente deposto sul sarcofago) a Spalato fa allusione Ammiano, 16, 8, 4. Costantino fu deposto in una bara d’oro adorno delle insegne imperiali, cioè della porpora e del diadema (Eus., VC 4, 66, 2), e così rimase esposto per vari giorni, ma questa situazione era funzionale alla possibilità di emanare atti di governo in suo nome, serviva cioè a legittimare l’“impero dopo la morte”, e l’esempio non può essere generalizzato. La variabilità delle cerimonie si accompagna alla scarsezza di dati. D’altro canto per il periodo che ci interessa – tra III e IV secolo – neppure l’archeologia aiuta a fornire elementi consistenti, in quanto non è ci è pervenuta (o non si è conservata) né una sepoltura di un imperatore intatta, né – a partire dal momento in cui si afferma il rito dell’inumazione – una sepoltura da cui provengano sia le spoglie del sovrano che un eventuale corredo 363, laddove è stato per secoli l’esteriorità del segno (monumenti e mausolei, sarcofagi, iscrizioni) l’elemento che prevale nella cultura romana, o meglio, ciò che la documentazione ci consegna. Vale tuttavia la pena di menzionare in quanto spettante alla famiglia imperiale, il ritrovamento nel 1544, all’interno di un mausoleo tardoantico attribuito alla dinastia teodosiana, trasformato nell’VIII secolo nella cappella di Santa Petronilla in Vaticano e distrutto per far posto alla nuova fabbrica di San Pietro 364, del sarcofago di porfido che conteneva le ossa di Maria, figlia di Stilicone e di Se- Alföldi 1935, 119-120. Bastien 1992-1994, 505-506, 510. 363 La rapina, la distruzione, il riuso dell’antico hanno accompagnato siti e monumenti nella loro storia. Il tema è talmente noto che non è necessario soffermarvisi, ma, in riferimento a sepolture imperiali, va ricordato lo scavo “archeologico” condotto da Federico II nel 1231-1232 in una cappella fatta edificare da Galla Placidia a Ravenna (la sua ubicazione è oggetto di discussione), secondo un resoconto del frate minorita Tommaso da Pavia, redatto nel 1279, ritenuto generalmente attendibile, per quanto ricco di par- ticolari fantasiosi (Kantorowicz 1981, 381, 434; Purpura 1993): aperto il sarcofago di Teodosio II (?) fu trovato il corpo dell’imperatore con vexillum e spata (per la fonte vd. Gerola 1912, 292-297, n. 2). Secondo la stessa fonte già Carlo Magno aveva scavato nel medesimo luogo, “rivistato” quattrocento anni dopo da Federico. 364 H. Brandenburg, in LTUR Suburbium 4, 2006, 193, v. Sancti Petri Basilica (Mausoleen und Nebenbauten). In questo mausoleo vennero sepolti, oltre a Maria, la sorella Thermantia, che andò sposa in seconde nozze ad Onorio, Onorio stesso, Galla Placidia, Valentiniano III. Destino delle insegne 361 362 70 I Segni del Potere rena, prima moglie di Onorio, morta giovanissima nel 408 d.C. e probabilmente imbalsamata 365. Il favoloso “tesoro” che accompagnava i resti dell’imperatrice era costituito da tessuti in oro, parures femminili di oreficeria, spille, anelli, vasi di agata e di cristallo 366, interpretati come i doni nuziali, in parte forse già ereditati dall’imperatore ed offerti alla sua sposa. Di questo contesto rimangono solo un ciondolo (una bulla) in agata, oro, smeraldi e rubini, conservato dal 1951 a Parigi, nel Museo del Louvre 367, e un simplum in sardonica nel Museo degli Argenti di Firenze, già della collezione dei Medici 368. Tutto il resto fu venduto o fuso da Paolo III. Se fossimo autorizzati a credere che le pratiche funerarie interessassero anche oggetti appartenuti all’imperatore defunto, com’è il caso del corredo rinvenuto nella tomba di Maria e come avveniva in altre culture per gli individui di rango 369, e che in quest’ambito possa essere stata prassi consueta (ma certamente non consolidata a tal punto da trovare riscontro univoco nelle fonti) quella di non separarlo dai simboli del suo potere in vita, il solo fatto di aver ritrovato insignia e signa al di fuori di un ambito funerario potrebbe indicare che l’imperatore che ne era in possesso non aveva ricevuto sepoltura. E ciò restringerebbe il campo dei possibili “titolari” dei nostri reperti. Ma questo filo di ricerca è molto esile, dal momento che molti, troppi, sono i personaggi che assumono il potere nel III e agli inizi del IV secolo (limite cronologico imposto dai nostri ritrovamenti) e che, in successione frenetica, muoiono in guerra contro nemici esterni o più spesso sono proclamati dopo la morte violenta o l’assassinio del predecessore nel medesimo luogo ove l’uccisione è avvenuta, quasi sempre nelle province e quasi mai a Roma 370. Le fonti inoltre sono scarse, reticenti, contraddittorie e di parte. Gli scrittori cristiani, su Chioffi 1998, 36, 43-44. Si riporta la descrizione di Lanciani 1892, 204-206 di questo corredo, che non ha nulla da invidiare a quelli delle tombe germaniche contemporanee (vd. L’or des princes barbares): «La bellissima imperatrice giaceva in una bara di granito rosso, con indosso le vesti imperiali intessute d’oro; dello stesso materiale erano il velo e la sindone che copriva la testa e il petto. La fusione di questi materiali produsse un considerevole ammontare di oro puro, il cui peso è riportato differentemente come di trentacinque o quaranta libbre. [...] Alla destra del corpo c’era un cesto di argento puro, pieno di recipienti e porta-profumi, scolpiti nel cristallo di rocca, nell’agata e in altre pietre preziose. Erano trenta in totale, tra i quali c’erano due coppe, una tonda e una ovale, decorate con figure ad altorilievo, di gusto squisito, e una lampada, fatta d’oro e cristallo, della forma di una conchiglia corrugata, con il foro dell’olio protetto e camuffato da una mosca d’oro, che ruotava attorno ad un perno. C’erano anche quattro vasi d’oro, uno dei quali tempestato di gemme. In un secondo cestello di argento sbalzato, posto sul lato sinistro, furono ritrovati centocinquanta oggetti: anelli d’oro con pietre incastonate, orecchini, collane, bottoni, spille per capelli eccetera, ricoperti di smeraldi, perle e zaffiri; una noce d’oro, che si apriva a metà; una bulla pubblicata in un lavoro di Mazzucchelli; e uno smeraldo inciso con il busto di Onorio, valutato cinquecento ducati. Gli oggetti d’argento erano scarsi; di questi troviamo menzionati solo una pinza per capelli e una cerniera a sbalzo. Le lettere e i nomi incisi su alcuni pezzi provano che formavano il mundus muliebris (doni nuziali) e gli articoli di toletta di Maria [...] A fianco dei nomi dei quattro arcangeli – Raffaele, Gabriele, Michele e Uriele – incisi su di una fascia d’oro, quelli di Domina Nostra Maria e di Dominus Noster Honorius comparivano su altri oggetti. La bulla era incisa con i nomi di Onorio, Maria, Stilicone, Serena, Termanzia e Eucherio, posti a raggiera a formare una doppia croce con l’esclamazione “Vivatis!” tra loro. Con l’eccezione di questa bulla, [...] ciascun pezzo è scomparso. [...] Non si trattava del lavoro di orefici del quinto secolo, ma erano di origine classica; in fatti rappresentavano una porzione dei gioielli imperiali, che Onorio aveva ereditato dai suoi predecessori, e che aveva offerto a Maria in occasione del suo matrimonio. Claudiano, il poeta di corte, li descrisse espressivamente come quelli che avevano brillato sul petto e la testa delle impera- trici dei giorni andati»: doni di nozze divenuti corredo funerario. Altre tombe con vesti intessute d’oro e gioielli erano state trovate nel medesimo luogo nel 1458 e nel 1519 (vd. Armellini 18912, 754-759, che colloca il mausoleo sotto la cappella di Simone e Giuda in San Pietro). Anche questi oggetti furono fusi o dispersi. 367 Aurea Roma, 468-469, Cat. nr. 70. In realtà la “bulla” è un reliquiario contenente grani di terra, verosimilmente della Terra Santa. 368 Loc. cit. alla n. precedente. 369 È superfluo segnalare i corredi che accompagnano le sepolture dei capi germanici, documentate nell’Europa centro- e nord-occidentale. Qualche contesto è stato già citato a proposito delle hastae, laddove la deposizione di armi (oltre alle lance, corazze, scudi, elmi, frecce, finimenti di cavalli), è funzionale ad un sistema di autorappresentazione dei “primi”, dei capi, dei “nobiles”. La pratica ha origini antiche all’interno di una società fortemente militarizzata, ma i ritrovamenti divengono più visibili e di straordinaria ricchezza e pregio artistico soprattutto dalla fine del IV secolo in poi (vd. il Catalogo della Mostra già citata di SaintGermain-en-Laye, “L’or des princes barbares”). Tra i tanti documenti, possono essere menzionati, perché recentemente riproposti nella mostra di Palazzo Grassi a Venezia, dedicata a Roma e i Barbari, il corredo di Mušov (Moravia meridionale) della fine del II secolo spettante ad un re germanico amico di Roma, seppellito con oggetti “cimelio” romani anche molto più antichi e un gran numero di armi (è il corredo militare in assoluto più ricco della Germania libera) (Peška 2008), del principe di Gommern (Sassonia) del secondo terzo del III secolo (Becker 2008) e di Childerico (482 d.C.), padre di Clodoveo e fondatore dell’impero merovingio, seppellito a Tournai (Belgio) con gioielli, armi (tra le quali quattro lance), finimenti di cavallo, e con l’anello sigillare, ove il re è rappresentato con le insegne del potere romano (corazza e paludamentum) (Colonna 2008; Quast 2010, con bibliografia). Questo tipo di deposizioni trova riscontro anche in Italia in seguito alle invasioni barbariche. In quest’ambito spiccano le zone sotto la dominazione longobarda: vd. sulla “ritualità della morte” I Longobardi b, 203-275. 370 Sui funerali imperiali (fonti e bibliografia) si rimanda al capitolo dedicato all’“archeologia della morte” da Arce 1988, 59123. 365 366 71 Clementina Panella cui si basa gran parte della documentazione scritta disponibile, dipingono generalmente a tinte fosche la morte degli imperatori “persecutori”: Macrino (ucciso dai soldati ad Antiochia; decapitato, quasi certamente qui sepolto); Eliogabalo (ucciso dai Pretoriani; cadavere oltraggiato e gettato nel Tevere); Massimino il Trace (morto ad Aquileia, il corpo gettato nel fiume o divorato dai cani e dagli uccelli, la testa inviata a Roma), Pupieno e Balbino (uccisi nel Palazzo imperiale; i corpi trascinati attraverso la città), Decio (ucciso a Abritto in Bulgaria insieme al figlio Erennio Etrusco, combattendo contro i Goti: cadavere dato in pasto alle fiere, fine che Lattanzio riserva anche all’altro figlio, Ostiliano, che dovrebbe essere morto invece a Roma di peste; forse suo il sarcofago Ludovisi del Museo Nazionale Romano), Valeriano (ucciso in cattività dai Persiani), Massenzio (annegato nel Tevere, decapitato; la testa portata a Roma e poi inviata in Africa: PanLat 10 [IV], 32, 6 ). «La violenza stessa delle morti impedisce lo sviluppo normale delle onoranze funebri e pertanto di avere un sepolcro onorevole» (Arce 1988, 98), con qualche eccezione: Aureliano, ucciso dai soldati, ma sepolto “onorevolmente” tra Perinto e Bisanzio, a Coenofrurium. Questi scenari ci riportano ad un contesto in cui lo stato di pericolo è la costante della vita di tutti coloro che hanno aspirato in quei decenni alla dignità imperiale, o che la hanno raggiunta. Le osservazioni che precedono mostrano che nel periodo che ci interessa non pochi sono i personaggi la cui sorte infelice potrebbe giustificare l’atto denunciato dall’occultamento o dal seppellimento dei loro segni di rango. D’altro canto non possiamo allontanarci troppo da quegli inizi del IV secolo segnati dalla presenza della moneta di Diocleziano del 298 d.C. e della Sigillata afri- cana D negli strati che coprono il contesto. Il periodo della Tetrarchia post 298 d.C. rappresenta un fase di relativa pace almeno fino al 305/306 d.C., e a Roma, non più capitale, fino al 312 d.C. Dopo la battaglia di Ponte Milvio e la vittoria di Costantino non vi sono altri episodi che riguardino imperatori che risiedano a Roma che giustifichino l’evento, almeno fino alla metà del secolo. È questo insieme di elementi che ci consente di “rischiare” l’ipotesi che il nostro “corredo” possa essere appartenuto a Massenzio e che l’occasione del suo occultamento possa essere immediatamente precedente o immediatamente successivo alla sua sconfitta e alla sua uccisione nella battaglia del 312 d.C. d.C.: Massenzio è l’ultimo imperatore ad esercitare il suo potere a Roma e a perirvi tragicamente. Il personaggio risponde ai requisiti emersi dall’analisi dei dati: muore il 28 ottobre del 312 dopo aver sfidato in campo aperto Costantino che raggiunge ai Saxa Rubra, interrompendo le celebrazioni per il suo sesto anniversario di regno; non viene seppellito, ma la sua testa, infilata in una lancia, è esposta a Roma la mattina del 29 ottobre per convincere i Romani, increduli, che il “tiranno” 371 era effettivamente morto 372. Prima dello scontro decisivo, o come riteniamo, subito dopo la sconfitta, qualcuno dei suoi seguaci potrebbe aver nascosto o seppellito le sue insegne. E tra i suoi sostenitori vi erano gli equites singulares e i pretoriani 373, che videro i loro reparti sciolti e le caserme distrutte. Questi due corpi scelti erano stati, dal momento della loro istituzione, al fianco di tutti gli imperatori e nella travagliata storia del III e degli inizi del IV secolo ne avevano segnato e ne avevano seguito la sorte 374. Probabilmente furono i più colpiti dalla vittoria di Costantino su Massenzio, alla cui proclamazione avevano in modo determinante contribuito e che avevano difeso fino alla fine 371 In età imperiale il termine si specializza nel senso di usurpatore: il princeps è colui che ha assunto legittimamente il potere ed è quindi è l’antitiranno per eccellenza; il suo avversario è perciò l’usurpatore. “Tiranno” è dunque Massenzio, così definito dal Senato e dal popolo di Roma nell’iscrizione dell’Arco dedicato nel 315 d.C. al vincitore. Su tale monumento, i cui rilievi raccontano gli episodi più significativi della guerra tra Costantino e Massenzio, dall’assedio di Verona alla battaglia di Ponte Milvio, si rimanda a Pensabene - Panella 1999 con bibliografia. 372 Eus., Hist. Eccl. 9, 9, 2-8 e VC 1, 37-40; Zos., 2, 16, 2-4; Lact., Mort. pers. 44; Aur. Vict., Caes. 40, 23; Epit. 40, 6; Eutr., 10, 4, 3; Anon. Val., 4, 12; PanLat 9 (12), 14-21 (313 d.C.) e 10 (4), 27-34 (321 d.C.). 373 Sembra che una coorte pretoria abbia assunto durante il breve regno di Massenzio, prima cioè che il corpo fosse sciolto, il nome di cohors romana palatina (Speidel 1988; Id. 1992, 385-386). L’ipotesi nasce dal ritrovamento di due basi iscritte rinvenute nel Foro di Traiano, ove il termine PRAET(oria), riferito ad una coorte di cui manca il numero, è stato eraso e sostituito con ROMANA / PALATINA, con caratteri databili su base paleografica al IV secolo. Esposte nel Foro insieme ad altre due basi che riportano i nomi di una cohors urbana (perduta anche qui l’unità di appartenenza) e della Legio II Augusta, dovevano sostenere aste in metallo con i signa dei rispettivi plotoni (Zanker 1970, 521-522, figg. 38-41, anche per la datazione ad età traianea delle basi originali, confermata da Bérard 1988, 161-162). 374 Durry 1938, 394; qui anche sulle ragioni (tra le altre, il loro radicamento a Roma) che portarono allo scioglimento dei pretoriani. L’ipotesi massenziana 72 I Segni del Potere regina” – denominazione comune negli autori e nelle iscrizioni di età tardoantica – alla base del riconoscimento della sua autorità), sia in relazione alla localizzazione del rinvenimento che, oltre a ricadere nell’area più interessata dalla sua attività edilizia (di fronte cioè al complesso costituito dal Tempio di Venere e Roma e alla Basilica Nova, da interpretare come un grandioso palcoscenico per le udienze imperiali e per le cerimonie connesse con il culto della dea Roma), chiama in causa proprio quelle pendici nord-orientali del Palatino che i dati archeologici hanno rivelato in questi ultimi anni strettamente collegate a Romolo e alla città delle origini, e ad Augusto nella sua veste di nuovo Romolo 381. coprendo con i loro corpi il campo di battaglia 375: i sopravvissuti (equites e pretoriani: le fonti non specificano) furono trasferiti sul Reno e sul Danubio (PanLat 9 [12], 21, 2-3) 376; sui resti del quartier generale degli equites al Laterano il vincitore edificò la basilica del Salvatore, oggi San Giovanni in Laterano, sulla loro necropoli in località ad duas lauros edificò invece la basilica circiforme di S. Marcellino e Pietro e il Mausoleo di Elena. Punizioni definitive toccarono, secondo Zosimo, solo agli intimi di Massenzio, ma se è facile individuare le continuità di carriera di alcuni personaggi di rango – i prefetti urbani, che consolidano il loro ruolo di governatori della città dopo l’abbandono della capitale da parte di Costantino 377 –, quali C. Annius Anullinus (3), C. Ceionius Rufius Volusianus (4), Aradius Rufinus (10) [vd. PLRE I, sub voce] 378, che servirono entrambi gli imperatori, più difficile è individuare le storie di discontinuità, che forse ci furono 379, ma per le quali manca l’appoggio delle fonti. Tuttavia una tradizione consolidata voleva che i grandi senatori romani, anche nel caso avessero appoggiato “tiranni”, potessero contare sulla clementia del principe. Si massacravano cioè i collaboratori diretti, i funzionari, i capi militari, ma di rado si condannavano i senatori 380. L’ipotesi “massenziana” apre il campo a numerose suggestioni sia in relazione alla storia del personaggio (è il “conservator urbis suae” delle leggende monetali, l’imperatore che aveva posto Roma e le tradizioni della “città Il ritrovamento delle insegne in un luogo carico di memorie e la possibilità che il titolare di tale insieme di “segni” sia un personaggio che alle tradizioni della città aveva legato la legittimazione del suo potere, attuando tra l’altro presso e accanto a quel luogo l’ultimo grande intervento edilizio sul centro urbano dopo la costruzione dei Fori imperiali 382, ci hanno spinto a dedicare quest’ultimo paragrafo alla sua personalità e al suo itinerario politico-ideologico, così come essi sono desumibili non tanto dalle fonti scritte, quanto dalle poche fonti materiali di cui disponiamo, sopravvissute alla sua damnatio memoriae (alcune iscrizioni, qualche ritratto 383, – vd. img. 105 –, i monumenti architettonici, le leggende mo- 375 PanLat 9 (12), 17.1. Turmaeque praetoriae è l’espressione utilizzata da Aur.Vict., Caes. 40, 5 per definire i sostenitori del tiranno, sintetizzando probabilmente con un’unica formula due entità diverse: le turmae, che è il termine che designa i corpi di cavalleria, e le guardie del pretorio, che avevano tuttavia anch’esse una turma di equites in ciascuna coorte: Durry 1938, 203; Speidel 1992, 279-289. 376 Sugli eventi che coinvolsero le truppe fedeli a Massenzio prima e dopo la battaglia di Ponte Milvio si rimanda a Speidel 1994a, 152-157 (bibliografia e fonti). Le scholae palatinae (5 di 500 uomini ciascuna quelle istituite da Costantino, passate in seguito a 12) sostituirono le cohortes praetoriae e rappresentarono la nuova guardia del Palazzo sotto l’autorità del magister officiorum (Clauss 1980, 40-45; Le Bohec 2006, 35, 68). 377 Sui praefecti urbi ancora insostituibile è lo studio di Chastagnol 1960. Le premesse per una radicale trasformazione del governo della città si erano già poste nel III secolo prima della partenza della corte imperiale con Costantino, quando gli imperatori soldati “diserteranno sistematicamente l’antica capitale” (Coarelli 2000, 302). Nel IV secolo si conclude il processo di concentrazione nelle mani del prefectus urbi delle funzioni amministrative, giurisdizionali, di polizia, divise in precedenza tra imperatore e senato. 378 Elenco dei prefetti urbani dal 312 al 325 in Chastagnol 1962, 63-78. 379 La discontinuità nella scelta dei prefetti urbani si verificò a partire dal 323 d.C. con la nomina di Lucceius Verinus e poi di Acilius Severus. Fino a quella data la prefettura urbana era stata affidata ai membri più illustri della nobilitas romana con il chiaro intento di rassicurare l’aristocrazia senatoria e rendere meno traumatico il passaggio dal regime del “tiranno” al nuovo ordine costantiniano: Fraschetti 1999, 78-80; Chastagnol 1960, 401-414. 380 Matthews 1975, che analizza anche le vicende dei senatori compromessi con altri usurpatori del IV secolo, come Massimo, Eugenio. 381 Sul complesso di evidenze che ci ha portato alla ricostruzione della storia di questa pendice palatina e dell’intero settore urbano che gravitava su di essa, vd. supra, nn. 2-3. 382 Per l’analisi di tutti i complessi architettonici assegnati a Massenzio, con bibliografia aggiornata, si rimanda al recente lavoro di Oenbrink 2006. Sulla sua attività edilizia a Roma vd. anche Pisani Sartorio 1999; Ead. 2000. 383 Quattro sono i ritratti solitamente attribuiti a Massenzio: una testa di Stoccolma, la testa di Dresda (img. 105), una testa di Ostia e una del Museo Torlonia inserita in un busto non pertinente; altre potrebbero essere state rilavorate da Costantino: Parisi Presicce 2005, 142-143, con bibliografia. Per il ritratto di Dresda, vd. Varner 2004, 219, fig. 212. Massenzio e Roma 73 Clementina Panella netali), anch’esse a loro modo opera di propaganda e di autorappresentazione 384. La violenta campagna filocostantiniana messa in atto subito dopo la battaglia di Ponte Milvio (vd. il ritratto che dell’usurpatore/tiranno dà già nel 313 d.C. l’autore del Panegirico 9 [12] 385) ha trasmesso di Massenzio un’immagine distorta, incompleta, inaffidabile, come accade per tutti i “perdenti” e come già notava uno degli scrittori della Historia Augusta a proposito di Pescennio Nigro, sconfitto da Settimio Severo (Ael. Spart., Pesc. Nig. 1, 1-2). «Quando un tiranno viene abbattuto anche i suoi ritratti e le sue statue vengono deposte. Il volto viene cambiato o la testa viene rimossa e il ritratto di colui che risulta vincitore viene sovrapposto, cosicché il corpo resta e un altro ritratto viene modificato sulle teste decapitate»: Hieron., In Abacuc 2, 3, 14-16, 984-988. Girolamo offre un quadro realistico degli effetti tangibili della damnatio memoriae, la “condanna alla dimenticanza” che colpisce in età imperiale principi deposti, membri della casa imperiale condannati, individui che avevano cospirato contro l’imperatore regnante. La distruzione e la mutilazione dell’immagine, a cui spesso corrisponde la distruzione e la mutilazione fisica dell’avversario, è a sua volta l’equivalente visivo della denigrazione del suo carattere e delle sue azioni operata dalle fonti letterarie e storiche. La damnatio, che viene attuata anche sulle effigi monetali e sulle iscrizioni (in monumentis), corre cioè in parallelo a quella dei resoconti storici (in annalibus). «La mutila- zione e le trasformazioni delle immagini imperiali possono essere viste come una riscrittura deliberata della memoria visiva della storia e della società romana» 386. I ritratti di Costantino sono ad esempio quasi tutti riutilizzati e rilavorati 387. Alcuni di essi potrebbero essere appartenuti a Massenzio 388, come l’acrolito colossale della Basilica Nova oggi nel cortile dei Musei Capitolini, forse già interessato da una precedente rilavorazione, o come, secondo un’interpretazione recente 389, il Colosso bronzeo del Museo dei Conservatori 390. È anche possibile, anzi assai probabile, che attraverso la denigrazione dell’avversario Costantino abbia approfittato, per appropriarsene, della mancata inaugurazione da parte di Massenzio di opere da lui iniziate, come la Basilica Nova e il complesso termale sul Quirinale 391. Ciononostante, ai suoi sei anni di regno sono attribuite in base alle fonti (Chron. 354 MGH 1, 148; Aurel. Vict., Caes. 40, 26), alle tecniche edilizie, ai bolli laterizi, la ricostruzione del Tempio di Venere e Roma, la costruzione della Basilica Nova 392, del c.d. Tempio di Romolo sulla Sacra via 393, delle terme sul Quirinale, delle terme verso il Circo Massimo nel palazzo imperiale, della chiesa di S. Crisogono e della basilica di S. Sebastiano o dei SS. Apostoli, cioè della prima chiesa cristiana della città 394, della villa con circo e mausoleo sulla via Appia, che porta a maturità una tipologia monumentale particolarmente frequentata in età tardoantica in altre capitali dell’impero 395. Dubbio resta il restauro 384 La bibliografia su Massenzio è vasta. Si rimanda a Cullhed 1994, che riassume le linee generali del dibattito storiografico sviluppatosi intorno a questo personaggio. 385 Sulla demonizzazione dell’avversario politico in questi testi vd. Lassandro 1980; sulla “costruzione” dell’immagine di Massenzio nella Vita Constantini di Eusebio vd. Drijvers 2007. 386 Parisi Presicce 2005, 142; sull’argomento ibid., 141-143, con bibliografia. 387 Su di essi vd. Parisi Presicce 2005. 388 Varner 2004, 215-220. 389 Ensoli 2000, 86-88; qui a n. 104 anche per l’intervento massenziano sul basamento della statua neroniana; gli stessi temi in Ead. 2007. 390 Si può certamente escludere in questi casi che la pratica della rilavorazione, così frequente in età tardoantica, possa essere il frutto di messaggi ideologici e propagandistici esplicitamente volti a creare, attraverso la manipolazione fisionomica, un collegamento con le virtù dei personaggi precedentemente raffigurati, come è accaduto ad esempio per i ritratti dei “buoni imperatori” del II secolo rilavorati e trasformati in Costantino sui rilievi traianei, adrianei, aureliani reimpiegati sull’Arco a lui dedicato. 391 Parisi Presicce 2005, 141. 392 Su questo edificio vd. i contributi di Amici 2005; sulla decorazione architettonica, Carè 2005 (in entrambi bibliografia aggiornata). 393 Il c.d. Tempio di Romolo è un edificio problematico. Benché sia provata una fase edilizia costantiniana, che consiste nel rifacimento della facciata che diventa curvilinea, l’impianto è, secondo gli studi più avvertiti, da ritenere massenziano: Fiore 1980; Coarelli 1986, 10-22. L’esistenza di un rapporto tra figurazione numismatica e architettura reale è uno dei problemi che ha coinvolto finora l’identificazione di questo complesso e la sua funzione: da ultimo sull’argomento Dumser 2006. 394 Heres 1982, 103-106; Steinby 1986, 142-143, passim. L’analisi delle murature (Heres 1982, Cat. nr. 39 e fig. 60), l’assenza nel Liber Pontificalis di menzioni che la riportino a Costantino (al contrario di quanto accade per altre basiliche circiformi, di cui quella di S. Sebastiano costituisce il prototipo), la contiguità con la villa di Massenzio e quindi con le proprietà del fisco imperiale sull’Appia, investite in quegli stessi anni dall’attività edilizia dell’imperatore, i rapporti non conflittuali di Massenzio con la comunità cristiana di Roma che traspare anche nelle fonti a lui ostili, sono tra gli argomenti utilizzati per assegnare a Massenzio anche la fondazione di questo edificio. L’ipotesi, già in R. Krautheimer, è stata ripresa da Jastrzębowska 1982 e Ead. 2002 395 Pisani Sartorio 1999, con bibliografia. Sulle innovazioni dell’architettura residenziale/palaziale dell’età tetrarchica, all’interno della quale la villa di Massenzio è uno straordinario esempio, vd. Brenk 2005b. 74 I Segni del Potere delle Mura Aureliane 396, assegnato tuttavia a Massenzio dal Cronografo del 354 già citato e da Lattanzio (Mort. pers. 27, 2). A questi complessi è possibile associare in base ai dati di scavo anche l’impianto all’interno del Templum Pacis di un grande horreum forse in sostituzione di quello demolito per far posto alla Basilica 397, un ampliamento della vasca della Meta Sudans flavia nella valle del Colosseo 398 e forse il rifacimento della base del Colosso con relativa iscrizione dedicatoria al fìglio Romolo già divinizzato (l’epigrafe reimpiegata sull’attico dell’Arco di Costantino è rimasta inedita 399). È possibile infine che Massenzio abbia realizzato anche la sede della prefettura urbana sulle Carinae nell’area retrostante la Basilica Nova 400. Le incertezze di alcune attribuzioni non mettono in discussione né l’imponenza dell’intero programma che investe il centro urbano, in pratica tutta la zona del versante veliense gravitante sul Foro romano e sulla Sacra via fino alla valle dell’Anfiteatro, per il quale si è parlato di un “nuovo Foro” 401 o di “Foro di Massenzio” 402, né il disegno complessivo a cui tale programma fa riferimento volto a rivitalizzare in termini monumentali la città proprio nel momento in cui il potere era stato trasferito altrove (a Milano, Nicomedia, Tessalonica, Treviri), né le ragioni di carattere ideologico che si riflettono sia nella scelta dei luoghi legati in gran parte ai miti di fondazione e delle origini, sia nella funzione degli edifici stessi. Su tali tematiche nulla si può aggiungere a quanto scritto qualche anno fa da Filippo Coarelli 403. Gli interventi costantiniani, seppur grandiosi, aggireranno sostanzialmente i comparti più importanti della città antica, ma non li toccheranno più, destinando ad altri luoghi la centralità della città tardoantica (Laterano, Quirinale, Vaticano) 404. Sullo stesso registro si muovono anche le iconografie monetali 405. Marte, Romolo e Remo, la lupa con i ge- melli (“la bandiera del regime” 406) (img. 107) 407, la dea Roma, i Dioscuri (anch’essi gemelli fondatori assimilati ai Penati) (img. 108) 408 sono i simboli della romanitas (concetto politico prima che di propaganda) che Massenzio utilizza nella sua monetazione per il riconoscimento di un potere che si sosteneva solo attraverso il rapporto con Roma – città e dea 409. All’interno di questa ideologia, per tanti versi semireligiosa, si spiegano sia il nome Romolo dato al figlio morto prematuramente (nel 309 d.C.) e sepolto nel mausoleo della villa sull’Appia, sia tutte le operazioni di carattere urbanistico-architettonico, nelle quali si concretizza il suo programma di renovatio imperii 410. Un programma questo che si pone, tra l’altro, in continuità con quelle tendenze universalistiche connesse con il concetto di Roma Aeterna ostentate dagli imperatori meno legittimi, lontani, stranieri o usurpatori del III secolo «in una volontà manifesta di concorrenza con i loro avversari naturali d’Italia», particolarmente sentite dagli imperatori illirici, ma sostenute ora da un attaccamento forse più sincero alle tradizioni dell’Urbs e da uno sforzo sistematico di restaurazione, tanto più significativi in quanto Roma non era più di fatto capitale 411. In questo senso il programma edilizio di Massenzio è stato recentemente letto in chiave antitetrarchica 412. I vincoli con la città vengono riproposti nelle monete che mostrano l’imperatore nell’atto di ricevere il globo (cioè il simbolo della sovranità) dalla mani della dea Roma seduta all’interno di un tempio tetrastilo (img. 106) 413, che non può non essere che quello di Venere e Roma in base all’immagine della divinità, dei gemelli e della lupa sul frontone, della leggenda (conservator Urbis suae) e del significato simbolico della scena (indipendentemente dalla rappresentazione schematica dello stesso: il tempio compare infatti ora esastilo, come sulla monetazione dei Severi e di molti imperatori del III secolo, ora te- Heres 1982, loc. cit. a n. 394. Santangeli Valenzani 2000, 41-44, in part. 41; qui anche per la bibliografia sul tema. 398 C. Panella, in LTUR 3, 148, v. Meta Sudans; Ead. 1996, 87. 399 L’iscrizione è stata presentata da A. La Regina nel IX Incontro di Studio sull’Archeologia Laziale, ma non è stata mai pubblicata. Ad essa fa riferimento Ensoli 2000, loc. cit. a n. 389. 400 Coarelli 1986, 22-33. 401 Fiore 1980, 64. 402 Oenbrink 2006, 192-193. 403 Coarelli 1986, 1-35 e Id. 1999a. 404 Krautheimer 1981, 13, 33, 35. Per una sintesi complessiva della storia delle vicende urbanistiche della città tra Massenzio e Costantino si rimanda a Guidobaldi 2000, 324-333 con ampia bi- bliografia e al già citato Catalogo della Mostra “Costantino il Grande”, 65-69, 75-105. 405 Cullhed 1994, 45–67 e passim. 406 Secondo la definizione di Gagé 1936, 165. 407 RIC VI, 402, nr. 13, tav. 7, 13. 408 RIC VI, 403, nr. 16, tav. 7, 16. 409 Sulle monete vd. Cullhed 1994, 46-49, fig. 2-7; sull’idea di romanitas, ibid., 63-67. 410 Cullhed 1994, 45-46; 49-62. 411 Gagé 1936, 160-167. 412 Oenbrink 2006. 413 RIC VI, 325, nr. 113, tav. 5 (zecca di Aquileia, 307 d.C.); Pardini 2006, 721-722, fig. 5. 396 397 75 Clementina Panella trastilo; nel II secolo sulle monete di Adriano e di Antonino Pio è decastilo con diversi soggetti sul frontone). In altre emissioni con la stessa leggenda (imgg. 15, 109) la dea Roma compare da sola, seduta all’interno di un tempio (esastilo), che va ugualmente identificato, in base all’immagine della divinità che si intravede tra le colonne, con quello di Venere e Roma 414 (il templum Urbis dei testi del Basso Impero) 415. Poiché le monete sono state emesse rispettivamente nel 307 e nel 308 d.C., il rifacimento del tempio, a seguito di un incendio (Chron. 354, MGH 1, 148), doveva essere già in progetto e probabilmente già iniziato (l’intervento si daterebbe alla primavera/estate del 307 d.C. insieme alla costruzione della contigua Basilica) 416. Si segnala che il Tempio di Venere e Roma (esastilo) compare per l’ultima volta nella sua storia su alcuni folles (img. 110) 417 e su un medaglione 418 di Costantino datati tra la fine del 312 e il 313 d.C., ma la leggenda è ora (ovviamente) liberator urbis suae. Liberator urbis e fundator quietis sono anche gli appellativi che compaiono in epigrafe all’interno del fornice centrale dell’Arco (imgg. 112-113) 419 eretto qualche anno dopo la vittoria a poche decine di metri dal luogo ove sono stati rinvenuti i “segni del potere” appartenuti con un certo grado di probabilità proprio all’avversario sconfitto (img. 111) 420. 414 RIC VI, 382, nr. 258 (zecca di Roma, 310-311 d.C.); vd. anche il nummus della zecca di Ticinum già menzionato (img. 15): in entrambi il tempio è esastilo, come su un follis della zecca di Aquileia del 308 d.C. (Pardini 2006, 721, fig. 6). 415 Gagé 1936, 152 ss., tav. 1, 12-13. 416 Coarelli 1986, 30. RIC VI, 387, nrr. 303-304 (zecca di Roma, 312-313 d.C.). Cohen 18882, 265-266, nr. 318: Constantin I Le Grand. 419 Si tratta dei rilievi traianei reimpiegati nell’Arco: Giuliano 1955, figg. 7-8. 420 Fregio costantiniano della battaglia d Ponte Milvio sul lato Sud dell’Arco: Giuliano 1955, fig. 32; De Maria 1988, tav. 98, 1. 76 417 418